CINEMA
MONICA GUERRITORE “Nel mio primo film ridarò vita alla grande Anna Magnani”
Una donna dall’immenso talento, amata e riconosciuta in tutto il mondo. Ma anche, nel suo intimo, indifesa, fragile e molto sola. Una artista che entrava nell’anima e nel cuore dei suoi personaggi a tal punto da renderli troppo veri e troppo vivi. Questa era Anna Magnani per Monica Guerritore. Così come ce la racconterà nel suo primo progetto da produttrice cinematografica.
“Il 26 settembre 2023 ricorreranno i 50 anni dalla morte di Anna Magnani, la più grande attrice italiana, amata e riconosciuta tale in tutto il mondo. Credo sia un dovere ‘raccontarla’ ancora più che ‘celebrare’. Raccontando cioè come l’immenso talento e la forza del carattere non siano riusciti a vincere le difficoltà, i muri che si è trovata davanti, significa raccontarne l’altra parte: quella della donna e artista sola. Stremata, isolata, continua a cercare una donna da raccontare, ma non ce ne sono. Il carattere si indurisce, si fa una cattiva fama. Dice lei stessa: “La prepotenza è l’unico modo che ho per difendere la Magnani”. Così Monica Guerritore per presentare il suo progetto su Anna Magnani, unica in Italia che lo possa fare, entrando dentro la donna Anna e raccontando Magnani con un’empatia che solo chi è riuscita a capire nel profondo Giovanna d’Arco o la Fallaci potrebbe fare. Monica Guerritore e il coraggio: anche di raccontarlo e dar voce a questo progetto nei teatri d’Italia con grande successo. Parlare di Monica Guerritore oggi è come pensare alle ondate sugli scogli, a qualcuno che sa incitare come se si dovesse arrampicare sull’albero della cuccagna, tale è la sua forza di donna, artista. Si chiamerà “Anna il film” questo importante progetto che racconta di un cinema che cambiava e lasciava indietro la celebrata interprete perché, come analizza Guerritore che niente lascia al caso, iniziava l’epoca della verosimiglianza. E non è detto che sia stata la strada giusta. Ma ha capito che i migliori siamo anche noi, indifesi e fragili, che ormai non abbiamo più parole e nessun’altra arma per difenderci, nessuna aspirazione postuma a dominare sugli altri.
Monica come sta lavorando a questo progetto impegnativo?
“Come regista di un’opera prima ho chiamato accanto a me alla cinematografia, sensibile e potente al punto da poter restituire sullo schermo una donna che era fuoco, passione, ghiaccio, e durezza, insieme: Fabio Zamarion. La sceneggiatura evita il taglio biografico, impossibile in una personalità così complessa come quella di Anna Magnani, e diventa racconto visionario, prendendo come spunto iniziale un momento privilegiato: la notte per lei più importante, quella in cui tutto può accadere, la notte degli Oscar 1956”.
Cosa ricorda di Anna Magnani?
“L’ho avuta accanto ai tempi de La lupa. Ho letto su di lei e ultimamente pensato a lei, girato attorno a lei parlando di lei e poi lei, nella mia mente, ha preso vita autonoma e si è scritta da sé la prima scena. Ed è la scena di un rifiuto: il rifiuto di rimanere in attesa accanto a un telefono di bachelite nera, lo stesso rimasto muto una notte di 8 anni prima. Mi si impone così, Anna: nel voler ‘prendere aria’, uscire, calpestare i ciottoli della sua Roma notturna. La sua camminata per le strade della città vecchia, come il pifferaio magico seguito dai suoi gatti e in compagnia del suo popolo, la libera ed emergono dolori, gioie, tradimenti: germi fondativi forse delle sue grandi interpretazioni. Come in altre mie drammaturgie teatrali: vado per associazione emotive libere. La tecnica cinematografica è una cosa rassicurante perché isola e amplifica i suoi grandi dolori e li associa ad attimi: rinati, reincarnati, divenuti ‘forma artistica’. L’alba arriva e con lei la vittoria dell’Oscar annunciata dal suo popolo, che la porta, tra stornelli e clacson, in trionfo. Ma la sua alba è brevissima. Ha vinto troppo e ha vinto tardi”.
Una vita venata di tristezza quella della Magnani, che non ha mai dato l’impressione di una donna veramente felice.
“In qualche modo è così. E la struttura del film poggia su una drammaturgia in tre atti: la notte dell’attesa, in cui emergono prepotentemente i momenti fatali del passato; l’acme, la vittoria anche troppo breve, la lenta china fino a perdere l’appiglio e scivolare. Ma voglio andare oltre e risalire ai classici: il Mito sottostante è Sisifo. La fatica in lei è connaturata, appartiene al Mito e al suo destino. Volutamente il mio racconto non rispetta l’esatta cronologia e anzi, c’è un’associazione intuitiva, ogni momento che mettiamo sotto la lente ne porta con sé un altro e il suo senso prende quota piano piano per addendi. Ci sono i rifiuti, gli inciampi, gli inganni, lo spaesamento, la fuga e poi di nuovo la notte. Quella vera”.
Lei che la sta studiando e che ormai sa quasi tutto di Anna, può spiegare la sua personalità?
“Intanto è imprescindibilmente connessa al suo talento. Lei è. Ed è ingombrante in un cinema che cambia. “Le donne non hanno più il mio viso”, dice. Usa la parola “viso” e dice tutto, perché detto da una artista che invece credeva nella capacità dell’attore di diventare, interpretare. A Franco Enriquez, regista e direttore del Teatro Argentina di Roma, che con maleducazione la definisce “vecchia” per un ruolo, risponde a tu per tu: ‘Le assicuro che avrò l’età del personaggio. Questo, se il personaggio, dopo essermelo ben studiato e lavorato nella mia mente, mi avrà messo nel giusto stato d’animo. E allora avverrà il miracolo e avrò dentro e fuori l’età per interpretarlo”.
Una risposta impeccabile.
“Io, che sono autrice e regista sono anche una interprete e certe parole ‘sconosciute’ nei nostri anni dicono la verità. È anche questa, per me, la necessità di girare questo film e portarlo al pubblico. In lei, in quello che le è accaduto, leggiamo la crisi, la spaccatura che si è creata tra il mestiere dell’interprete e l’immagine verosimile. Anna Magnani parla del personaggio come una creatura a sé stante, una terza persona, un’opera della mente che va lavorata, studiata, inventata, creata. Ed è quell’opera della mente che diventa visibile. Il cinema non aveva più bisogno di questo. Non aveva più bisogno di interpreti. Interpretare era diventato il mezzo, non l’attore”.
Allora il cinema avrebbe dovuto fare una riflessione.
“Infatti: la sua fine così partecipata, così commossa, ci fa capire quanto il cinema stesso, prima di ogni altra cosa, abbia bisogno di riflettere su ciò che è successo a lei. E io penso che manchi ancora. Ci saranno in scena attori e attrici che interpreteranno il suo mondo: Rossellini, Fellini, Suso Cecchi D’Amico, Trombadori, volti ancora nella memoria, saranno scelti tra attori professionisti bravi e preparati in grado di restituire verità. Ma volutamente non saranno nomi famosi che potrebbero distrarre il pubblico”.
E da lei Guerritore quale altra meraviglia ci possiamo aspettare?
“La mia interpretazione fuggirà l’imitazione che uccide la vita. Le somiglio nella mente del pubblico, metterò i miei piedi nelle sue scarpe, camminerò dove ha camminato lei e le presterò il mio sentire che è l’unica cosa che si può fare per far tornare a vivere una vita che non è la nostra. Consapevole che non c’è verità quando si trasla un altro essere umano. C’è solo da restituirgli energia, senso, pensiero e sentimento. Semplicemente con questa mia prima opera cinematografica conto di riempire un vuoto. E per il mio mondo, quello degli interpreti, riaccendere la sua luce. Che ci guidi”.
“La mia interpretazione fuggirà l’imitazione che uccide la vita. Le somiglio nella mente del pubblico, metterò i miei piedi nelle sue scarpe, camminerò dove ha camminato lei e le presterò il mio sentire che è l’unica cosa che si può fare per far tornare a vivere una vita che non è la nostra”.