ARTISTI DEL NOVECENTO
JAMES LEE BYARS Tra mondo e spirito, Oriente e Occidente
Con un intelletto acuto e un cuore errante, James Lee Byars, artista americano del Dopoguerra, è riuscito a fondere Oriente e Occidente in opere maestose intrise di spiritualità che esplorano la profondità dell’esistenza umana. E hanno lasciato un’eredità eclettica che continua a influenzare l’arte contemporanea.
Angela Maria Scullica
Tra gli artisti americani del Dopoguerra, la figura poliedrica di James Lee Byars emerge come una delle più innovative. Nato nel 1930 a Detroit, Michigan, e prematuramente scomparso nel 1997 a Il Cairo, Egitto, a causa di un banale intervento chirurgico, Byars ha lasciato un’impronta indelebile nell’arte contemporanea, catturando l’essenza e la spiritualità dei suoi tempi. Dotato di un intelletto acuto, curiosità insaziabile, originalità innata ed eclettismo, Byars personificava l’immagine di un intellettuale errante, sempre aperto alle sfide di un mondo in evoluzione, permeato da complessità, paure e incertezze. Appassionato viaggiatore e studioso delle discipline umanistiche, si è distinto per la sua capacità di immergersi sia nella filosofia occidentale che in quella orientale. Il suo pensiero, aperto, flessibile ed errabondo, si è manifestato attraverso opere maestose, dense di colore e intrise di una profonda spiritualità. Queste opere mescolavano stili e linguaggi diversi, dando vita a un linguaggio artistico intimamente personale, capace di sorprendere, coinvolgere e affascinare il pubblico. Byars, con la sua creatività, si proponeva di indagare sulla condizione umana, esplorandone i limiti e cercando il significato profondo dell’esistenza. La sua creatività non si confinava a una singola forma d’arte, ma si estendeva in installazioni, sculture, performance, disegni e parole. Durante i suoi numerosi soggiorni all’estero in città come Detroit, Kyoto, New York, Los Angeles, Berlino, Berna, Venezia e Il Cairo, ha intrecciato relazioni con artisti e curatori, collaborando e intrattenendo una fitta corrispondenza attraverso sofisticate lettere scritte su materiali pregiati, che costituiscono parte significativa del suo lavoro e testimoniano il suo desiderio di essere presente in tutto il mondo. Grazie al suo approccio interdisciplinare e multimediale, il lavoro di Byars non è mai stato confinato a un singolo movimento artistico, ma è stato interpretato come una sintesi di pratiche orientali e correnti artistiche occidentali, tra cui l’arte concettuale, il Minimalismo, Fluxus, la performance e l’happening. Dopo oltre tre decenni dall’ultima esposizione ufficiale in Italia, Pirelli HangarBicocca presenta una retrospettiva dedicata a James Lee Byars. La mostra raccoglie opere di ampie dimensioni realizzate tra il 1974 e il 1997, provenienti da collezioni museali internazionali. Ma vediamo quale è stato il percorso umano e professionale di questo grande artista, il contesto culturale e sociale nel quale è vissuto e ha operato e cosa ha voluto rappresentare e comunicare con la sua arte.
Gli esordi nel clima artistico effervescente degli Stati Uniti
Negli anni Cinquanta e Sessanta, gli Stati Uniti erano al culmine del movimento dell’arte e dell’espressionismo astratto, un periodo in cui artisti come Jackson Pollock, Willem de Kooning e Mark Rothko stavano ridefinendo radicalmente il concetto stesso di arte. Questo periodo segnò la fine del modernismo e l’apertura verso nuove forme espressive, tra cui emerse la Pop Art con figure di spicco come Andy Warhol e Roy Lichtenstein che riflettevano la cultura di massa e il crescente fenomeno del consumismo.L’influenza degli espressionisti astratti, come Pollock, de Kooning e Rothko, si riflesse nella natura sperimentale delle opere di Byars. Ma, diversamente da questi artisti, che erano focalizzati principalmente sull’espressione emotiva e gestuale attraverso l’uso del colore e della forma, egli si orientò verso l’espressione concettuale delle emozioni esplorando temi filosofici, spirituali e metafisici e utilizzando spesso materiali e forme minimali per trasmettere i suoi concetti. Se dunque l’espressionismo astratto era legato a una forma emotiva e pittorica, James Lee Byars operò in modo più concettuale, affrontando questioni intellettuali attraverso un’ampia gamma di forme artistiche.Verso la fine degli anni Cinquanta, mentre si dedicava agli studi di psicologia, filosofia e arti applicate presso la Wayne State University, Byars iniziò a plasmare un percorso artistico innovativo caratterizzato da azioni informali e mostre innovative. Un esempio di questa creatività fu una presentazione tenuta nella sua casa, durante la quale Byars decise di eliminare tutti i mobili per concentrare l’attenzione esclusivamente sulla sua presenza nello spazio. Per l’intera giornata, rimase seduto su una sedia, offrendo agli spettatori un’esperienza insolita e intensa.
Il viaggio in Giappone e lo spiritualismo orientale
Dopo aver completato gli studi universitari nel 1958, James Lee Byars intraprese un viaggio significativo in Giappone, inaugurando una relazione duratura con il Paese del Sol Levante che avrebbe segnato l’intero suo decennio successivo. In quel periodo, il Giappone stava vivendo una fase cruciale di rinascita culturale post-bellica, con artisti e filosofi impegnati nella delicata navigazione tra le antiche tradizioni e l’influenza sempre più marcata dell’arte contemporanea occidentale, nella ricerca delle proprie radici culturali mediante la rivisitazione dell’arte tradizionale. Gli intellettuali giapponesi esploravano le profondità dello Shintoismo e del Buddismo Zen, cercando di ritrovare l’essenza della loro cultura. Al contempo, si assisteva a una graduale introduzione all’arte contemporanea occidentale, con influssi provenienti dall’espressionismo astratto e dal concettualismo. Nel corso del suo decennale soggiorno nel Paese del Sol Levante, Byars si immerse nelle sfumature della cultura giapponese, esplorando le antiche pratiche artistiche e assorbendo le filosofie Zen. L’influenza dello Shintoismo, con i suoi rituali minimali carichi di significato, si manifestò chiaramente nelle sue opere, che abbracciavano la semplicità formale e la profondità simbolica. Il teatro No, con il suo utilizzo delle maschere come veicoli di comunicazione enigmatici, divenne una fonte di ispirazione cruciale per l’artista. Le composizioni sceniche astratte e la creazione di atmosfere vivide e sensoriali, tipiche del teatro No, trovarono eco nelle opere di Byars, aggiungendo un elemento di mistero alle sue creazioni. La filosofia Zen si riflesse nel minimalismo che divenne una firma distintiva del lavoro di Byars. La ricerca di significato attraverso gesti essenziali e l’attenzione al momento presente, tratti distintivi della filosofia Zen, permearono le sue opere, creando una connessione profonda tra l’artista e la sua esperienza giapponese. L’interazione con artisti e pensatori giapponesi contemporanei arricchì ulteriormente il dialogo interculturale di Byars, fornendogli prospettive uniche. Questo scambio culturale influenzò la sua pratica artistica, trasformandola in un ponte tra due mondi, un connubio di tradizione e modernità.
L’interesse per l’arte performativa
La cultura giapponese ebbe un impatto significativo sull’inclinazione di Byars verso l’arte performativa che avrebbe ridefinito il suo approccio all’arte e alla partecipazione del pubblico. All’inizio, Byars fece le sue prime opere su vasta scala, utilizzando inchiostro su carta giapponese tradizionale per poi lanciarsi in grandi sculture “performative” che coinvolgevano attivamente il pubblico. Un esempio eloquente è “The Performable Square” del 1963: un cubo composto da fogli di carta piegati e impilati. La sua unicità risiede nell’abilità di attivare l’opera, dispiegando i fogli per formare un quadrato sul pavimento. Questa interazione innovativa tra l’opera e lo spettatore sottolineò la natura partecipativa delle sue performance. Byars estese il suo interesse per l’arte performativa coinvolgendo figure di spicco della danza sperimentale americana, tra cui Lucinda Childs e Yvonne Rainer. Queste collaborazioni, concentrate sull’esplorazione del movimento corporeo, dello spazio e della relazione tra artista e spettatore, aggiunsero strati di complessità e coinvolgimento alle sue opere. L’artista desiderava trasmettere, attraverso performance che coinvolgevano un pubblico eterogeneo in contesti urbani, istituzionali o sacri, una profonda riflessione sulla vita e sulla morte, spingendo le persone a interrogarsi sulla propria esistenza. L’indagine sull’effimero e la relazione transitoria con lo spettatore, aspetti centrali della pratica di Byars, traevano ispirazione negli antichi testi sacri buddisti secondo i quali tutte le cose visibili sono illusioni, manifestazioni temporanee della realtà che è indefinita e vuota. “L’identità degli esseri umani e quindi anche quella degli artisti non è un valore predeterminato, è come un sogno una visione una bolla un’ombra lo sguardo un lampo”, come lui stesso sosteneva. Emblematica di questa esplorazione è “The Giant Soluble Man” è una delle opere più note di James Lee Byars, una scultura performativa che incorpora diversi elementi distintivi. Questa installazione, realizzata nel 1969, è stata presentata in varie occasioni e luoghi, contribuendo a consolidare la reputazione di Byars come artista eclettico e innovativo. La scultura consiste in un grande mantello dorato, realizzato in carta dorata o fogli di alluminio, che avvolgeva completamente la figura umana. L’opera fu eseguita da Byars stesso o da altri partecipanti, trasformando così l’artista e la sua presenza fisica in parte integrante dell’installazione. Ciò che rese unica “The Giant Soluble Man” fu il suo carattere performativo. Quando Byars o il performer indossavano il mantello dorato, essi assumevano un ruolo quasi cerimoniale o rituale. L’opera traeva ispirazione dalle tradizioni culturali, come per esempio l’iconografia religiosa o cerimoniale, e allo stesso tempo, rifletteva la predilezione di Byars per l’uso di materiali preziosi e simbolici. Il termine “soluble” (solubile) nel titolo suggeriva la fragilità o effimero dell’opera. La scelta del materiale dorato e la sua fragilità sottolineavano la natura transitoria e mutevole dell’esistenza umana e dell’arte stessa. Attraverso le sue performance, James Lee Byars aveva il talento di sorprendere e catturare l’immaginario collettivo. Egli stesso appariva come uno sciamano, un dandy o un mago, vestendosi con abiti sfarzosi in oro, bianco, nero o rosa, accompagnati da cappelli, guanti e bende sugli occhi. Da innovatore artistico creò anche gli iconici “abiti collettivi” in seta, concepiti per essere indossati simultaneamente da più persone durante spettacoli pubblici da lui orchestrati. Durante tali eventi, Byars coinvolse personalità di spicco, attirando così l’attenzione dei media. Nel 1967, il New York Times dedicò un articolo a un’occasione straordinaria: un corteo di 100 persone che percorreva le strade di New York indossando una singola, imponente sciarpa di seta rossa. La processione, estesa per quasi 1,5 km, fu accompagnata dalla musica di Bach eseguita dalla Salvation Army Turba Band e guidata dalla studiosa femminista Shere Hite (1942-2020). In queste manifestazioni, Byars non solo dimostrava la sua abilità nel creare atmosfere straordinarie, ma generava anche una risonanza mediatica significativa attraverso la partecipazione di figure di spicco e l’originalità delle sue creazioni.
La maturità artistica negli ultimi decenni del Novecento
Il viaggio artistico di James Lee Byars attraverso gli ultimi decenni del XX secolo rappresenta un’affascinante esplorazione dell’arte concettuale e della spiritualità. Il suo impatto sulla scena artistica statunitense ha avuto inizio in modo straordinario dopo il suo primo viaggio in Giappone, quando Dorothy Miller, curatrice del MoMA, gli concesse l’opportunità di esporre le sue opere nelle scale d’emergenza del museo. Questa mostra, seppur della durata di un solo giorno, ha catapultato Byars nell’immaginario artistico statunitense, gettando le basi per una carriera eclettica e profondamente influente. Nel corso dei successivi trent’anni, Byars ha abbracciato un percorso artistico contrassegnato da una profonda ricerca nell’ambito dell’arte concettuale e della spiritualità. La sua pratica, che armonizzava concetti filosofici, estetica teatrale e materiali preziosi, si è manifestata attraverso performance, sculture, installazioni e opere concettuali. Negli anni Sessanta e Settanta, Byars ha costruito la sua reputazione grazie a performance teatrali e esibizioni intrise della sua presenza scenica. Opere iconiche come “The Giant Soluble Man”, di cui abbiamo detto sopra, lo hanno collocato al centro del movimento Fluxus, noto per le sue pratiche sperimentali e concettuali. Negli anni Ottanta, Byars ha continuato la sua esplorazione, concentrando la sua attenzione su temi legati alla spiritualità, alla filosofia e all’immateriale. Utilizzando materiali delicati come la carta dorata, ha creato opere che riflettevano sulla fugacità della vita, come le celebri “Lettere della Vita Eterna”, espressione del suo interesse per l’aldilà e la trascendenza. Gli anni Novanta hanno visto Byars approfondire la connessione tra arte e spiritualità orientale, influenzato dalla sua esperienza in Giappone. Le sue opere mescolavano il simbolismo occidentale e orientale, spesso impiegando materiali lussuosi che riflettevano la sua sofisticata estetica. La sua pratica artistica, aperta a molteplici influenze, ha sfidato le convenzioni artistiche, esplorando la natura dell’esistenza umana e la relazione tra arte e spiritualità. La sua scomparsa nel 1997 ha lasciato un’eredità significativa nell’arte contemporanea. La visione provocatoria di Byars, la sua capacità di unire culture e la profondità delle sue riflessioni lo hanno collocato tra gli innovatori dell’arte del XX secolo, dimostrando che il suo viaggio artistico è stato intrapreso non solo geograficamente, ma anche nell’anima umana.
“L’identità degli esseri umani e quindi anche quella degli artisti non è un valore predeterminato, è come un sogno una visione una bolla un’ombra lo sguardo un lampo”
Giornalista