ARTE CONTEMPORANEA
ANISH KAPOOR La bellezza, il lato oscuro e la relatività della vita nel flusso dell’esistenza
Attraverso la sua arte, Anish Kapoor esplora le complessità dell’esistenza. Dal suo percorso artistico professionale alla radice nella filosofia indiana, Kapoor incarna l’interconnessione in movimento tra materia, spazio e vita. E, con la sua arte, invita a riflettere sul cambiamento in un mondo sempre più interconnesso che richiede consapevolezza, etica e flessibilità mentale.
Angela Maria Scullica
Una realtà fluida dove gli estremi non si toccano mai ma si mescolano e convivono insieme in un magma che non ha né un inizio né una fine. Uno spazio infinito dove il vero si confonde con il falso, la vita con la morte in un continuo divenire che non dà certezze ma esprime inquietudine. La visione artistica di Anish Kapoor sul mondo contemporaneo si radica in sintesi qui, in questo frenetico e costante senso di movimento e cambiamento della vita che esclude ed emargina chi cerca di dargli un ordine prestabilito capace di garantire sicurezza. Attraverso l’esperienza sensoriale e la percezione Kapoor, con le sue opere, invita gli spettatori a mettere in discussione concetti e credenze acquisite perché il mondo e, di conseguenza, l’umanità intera, è in continua trasformazione. Sono le relazioni, i contatti, gli scambi verbali, le azioni, le reazioni ecc. che influiscono sui comportamenti, sui pensieri, sulle idee, sull’esistenza rendendo la vita liquida e sfuggente. E in questo magma fluido, occorre acquistare consapevolezza di chi si è, con tutte le nostre contraddizioni, e delle responsabilità che abbiamo nei confronti degli altri esseri viventi e dell’ambiente nel quale siamo immersi. Le opere di Kapoor sono permeate da elementi di dualità che giocano sull’opposizione tra vuoto e pieno, tangibile e immateriale. Questa tensione dinamica sembra riflettere la complessità della vita e delle relazioni umane, suggerendo come la verità e la bellezza emergano spesso dall’interazione di forze apparentemente opposte. Ma entriamo meglio in quella che è la visione filosofica e artistica di Anish Kapoor e nei messaggi che esprime attraverso la sua arte.
Il percorso artistico professionale
Anish Kapoor nasce a Bombay (ora Mumbai), India, il 12 marzo 1954, da genitori di origine indiana. Negli anni Settanta si trasferisce a Londra e inizia il suo percorso artistico presso l’Hornsey College of Art. Dopo aver ottenuto la laurea nel 1977, prosegue i suoi studi alla Chelsea School of Art Design, completando il percorso accademico nel 1978. Negli anni Settanta Londra viveva un’epoca di profondi mutamenti e agitazione, caratterizzata da una vasta gamma di influenze culturali, filosofiche e politiche che si intrecciavano tra loro e interagivano. Il Regno Unito affrontava gravi problemi economici e disordini sociali, mentre il movimento per i diritti civili e l’emancipazione delle donne guadagnava slancio. La tensione della guerra fredda e il crescente dissenso nei confronti del governo portarono a manifestazioni e proteste su vasta scala. Dal punto di vista filosofico, gli anni Settanta furono caratterizzati da un fervore intellettuale senza precedenti, con idee radicali che circolavano, come il post-strutturalismo e il post-modernismo, che mettevano in discussione le concezioni tradizionali di verità, potere e conoscenza. Nel campo artistico, Londra era un vivace crogiolo di innovazione e creatività, con una moltitudine di stili e approcci che si mescolavano e si sovrapponevano. L’arte concettuale, che metteva in primo piano l’idea o il concetto dietro l’opera d’arte piuttosto che la sua realizzazione materiale, era all’apice della sua popolarità, con artisti come Richard Long e Bruce Nauman che ne erano protagonisti. Allo stesso tempo, il minimalismo guadagnava terreno, con figure come Donald Judd e Sol LeWitt che cercavano di semplificare l’espressione artistica attraverso l’uso di forme geometriche elementari e materiali industriali. Con le idee minimaliste e concettuali dominanti coesistevano e si sovrapponevano molteplici altre correnti come la Land art, l’Arte ambientale, l’arte cinetica e l’Op Art, creando un terreno fertile per innovazione e creatività. Gli artisti si esprimevano attraverso opere che coinvolgevano natura, ambiente, sensi, relazioni con gli oggetti e spazio, utilizzando materiali naturali, nuovi, ricercati e particolari per il tatto, la vista, il colore e l’idea che trasmettevano. Immerso nel fervido clima artistico di Londra, Anish Kapoor assorbiva con entusiasmo l’energia creativa circostante, trovando ispirazione nelle idee minimaliste e concettuali prevalenti nell’epoca ma aggiungendo alla sua esperienza artistica un ulteriore strato di complessità e ricchezza che gli derivava dalle sue radici indiane.
Le radici nella filosofia indiana
La filosofia indiana, che è fortemente intrisa di spiritualismo, pone una forte enfasi sullo sviluppo spirituale e sul raggiungimento dell’illuminazione o dell’autorealizzazione. In quest’ottica, la trasformazione è vista come parte integrante del ciclo dell’esistenza e della ricerca spirituale, mentre la percezione gioca un ruolo cruciale nella nostra comprensione della realtà e nella nostra evoluzione spirituale. Entrambi questi concetti, trasformazione e percezione, sono fondamentali per comprendere la natura dell’esistenza e il nostro posto nell’universo. Nella filosofia indiana anche l’idea della dualità è fondamentale e si manifesta in varie forme attraverso diverse scuole di pensiero. Una delle dualità più rilevanti tra Atman (l’anima individuale) e Brahman (l’assoluto, l’essenza universale) è essenziale. Questa dualità viene risolta attraverso la realizzazione dell’identità assoluta tra l’Atman individuale e il Brahman universale. Altre dualità comprendono il bene e il male, il karma e il libero arbitrio, il piacere e il dolore. Queste dualità non sono viste come opposte e inconciliabili, ma come parte integrante della natura dell’esistenza umana e dell’universo. La ricerca spirituale, nella filosofia indiana, è infatti strettamente collegata alla comprensione delle dualità e alla loro risoluzione, riconoscendo l’unità fondamentale di tutta l’esistenza. Pertanto, la pratica spirituale mira a superare le dualità illusorie della mente e a percepire la realtà ultima al di là delle apparenze superficiali. Tutto ciò permea sin dall’inizio, l’arte di Anish Kapoor. “1000 Names“, realizzata tra il 1979 e il 1980, è una delle prime opere significative dell’artista. Si tratta di una scultura in gesso che rappresenta una serie di forme cilindriche sovrapposte e raggruppate. Essa prende il nome dai mille nomi di Dio presenti nelle tradizioni spirituali indiane, e può essere interpretata come un’espressione della ricerca spirituale e della dualità presente nell’universo. Le forme cilindriche sovrapposte suggeriscono un senso di movimento e cambiamento, evocando l’idea di un ciclo eterno di nascita, morte e rinascita. Allo stesso tempo, la disposizione ordinata delle forme riflette un senso di ordine e armonia, suggerendo l’interconnessione di tutte le cose nell’universo. “1000 Names” introduce quindi temi e concetti che saranno centrali nel lavoro successivo di Anish Kapoor. Essa, con la sua combinazione di forme geometriche e spiritualità, offre uno spunto di riflessione sulla natura dell’esistenza umana e dell’universo, invitando gli spettatori a contemplare la complessità e la bellezza del mondo che li circonda.
Materia, spazio e colori negli anni Ottanta
Negli anni Ottanta, Anish Kapoor si immerge in un’indagine sempre più profonda sulla percezione, sull’esperienza sensoriale e sull’interazione tra materia e ambiente. Durante questo periodo, esplora concetti filosofici e concettuali complessi che fungono da guida nella creazione di opere in grado di sfidare la percezione tradizionale dello spazio. Le sue opere evocano un senso di mutamento e trasformazione, suggerendo la transitorietà dell’esistenza umana e invitando alla riflessione sulle domande fondamentali della vita e dell’identità. In esse, Kapoor indaga sul concetto di dualità e opposizioni, giocando con contrasti come pieno/vuoto, luce/oscurità e forma/assenza di forma. E, concentrandosi sull’esperienza sensoriale, coinvolge attivamente gli spettatori attraverso l’uso di materiali tattili, superfici riflettenti e colori vibranti, al fine di stimolare una gamma di sensazioni e una profonda connessione emotiva ed estetica.
Il pigmento e il colore
Nei primi lavori di Kapoor anche il pigmento gioca un ruolo significativo, come per esempio nell’opera “To Reflect and Intimate Part of the Red” del 1981 che segnò la sua affermazione sulla scena internazionale. Quest’opera presenta un suggestivo insieme di forme in pigmento giallo e rosso, evocanti elementi naturali che emergono dal pavimento con un’aura di fragilità e trascendenza. O in “Endless Column“, realizzata nel 1987 dove il pigmento rosso vivo si espande e accumula alla base e sul soffitto, suggerendo una colonna eterea che attraversa lo spazio verso il cielo Questa struttura suggerisce una corporeità architettonica eterea, che serve da metafora del legame tra terra e cosmo. Kapoor stesso ha paragonato l’opera a un iceberg, affermando: “Quando si realizza un oggetto e lo si riveste di pigmento, quest’ultimo cade a terra creando un alone intorno all’oggetto stesso. Possiamo quindi paragonarlo a un iceberg: la maggior parte dell’oggetto è nascosta, invisibile. Una parte di esso sporgeva nel mondo, ma era il resto a essere veramente interessante”.
Spazio, vuoto e materia
Negli anni Ottanta, Anish Kapoor ha avviato un’esplorazione artistica dei concetti di spazio, materia e vuoto, con l’intento di mettere in evidenza l’interconnessione e l’interdipendenza tra questi elementi fondamentali dell’universo. In un mondo sempre più piccolo, affollato e distratto, egli invita con le opere a riflettere sul significato dell’assenza e del silenzio, sulla relazione con l’ambiente costruito e naturale, sulla percezione dello spazio pubblico e privato e sulla ricerca di un significato più profondo nell’esistenza umana e nell’universo. Per Kapoor, lo spazio va oltre la sua manifestazione fisica: assume un significato metafisico che abbraccia la vastità dell’universo e la complessità della mente umana. È un campo d’indagine infinito e inesplorato, che nelle sue opere si traduce in modo tangibile e palpabile. Kapoor crea spazi che invitano a essere esplorati fisicamente e mentalmente. E ciò incoraggia il pubblico a interagire con l’opera e l’ambiente circostante in modi innovativi, portandolo a riflettere sulla natura stessa dello spazio e sulla propria presenza al suo interno.
La materia, sempre per Kapoor, agisce come un mezzo trasformativo che converte concetti astratti in forme tangibili e esperienze sensoriali, offrendo al pubblico modalità complesse e significative di interazione con le sue opere. Attraverso l’utilizzo di materiali quali il metallo, il vetro e la resina, Kapoor crea opere che manipolano la percezione stessa della materia, sfidando i confini tra solidità e trasparenza, opacità e riflessività. Spesso, le sue sculture appaiono in una sorta di levitazione nello spazio, sfidando la forza di gravità e suggerendo una sensazione di leggerezza e fluidità. La materia, inoltre, funge da strumento per esplorare e comprendere il concetto di vuoto. Attraverso l’uso di forme e aperture che sembrano sprofondare nell’oscurità infinita, Kapoor invita gli spettatori a confrontarsi con il vuoto e con la natura stessa della realtà.
Il vuoto è un concetto chiave nelle opere di Kapoor. Kapoor non interpreta il vuoto come una semplice assenza di materia, ma come una forza dinamica e potente che permea e definisce lo spazio circostante. Attraverso l’uso di forme e aperture che sembrano sprofondare nell’oscurità infinita, Kapoor crea opere che evocano una sensazione di profondità e mistero, invitando il pubblico a confrontarsi con il vuoto in modo intimo e personale. Per lui il vuoto non è una assenza di materia, ma una presenza intrinseca, densa di significato e potenziale. Il vuoto è in realtà uno stato interiore. Ha molto a che fare con la paura, in termini edipici, ma molto di più con l’oscurità. “Sono sempre stato attratto da un’idea di paura, da una sensazione di vertigine, di caduta, di tensione verso l’interno. È una visione di oscurità. La paura è un’oscurità dove l’occhio è incerto, la mano si volge in una speranza di contatto, e solo l’immaginazione ha una possibile fuga”. Il colore del vuoto per Kapoor è il nero. “Non c’è niente di più nero del nero interiore”, dice lui stesso. “Nessun altro nero è paragonabile a quello…Questo vuoto non è qualcosa privo di importanza. È uno spazio potenziale, non un non spazio” (Mostly Hidden, an interview with Marjorie Althorpe-Guyton, in Anish Kapoor, British Pavilion XLIV Venice Biennale 1990, catalogo della mostra, London 1990, p.p. 43-51:45).
Le principali opere degli anni Novanta
Negli anni Novanta, Kapoor continua la sua esplorazione della dualità e della trasformazione attraverso opere che manipolano la percezione dello spettatore e lo spazio circostante, sfidando la percezione della solidità e dell’assenza e invitando gli osservatori a confrontarsi con la mutevole e illusoria natura della realtà. Una delle sue opere più iconiche di questo periodo è “Void Field” (“Campo di Vuoto”), con la quale partecipa alla Biennale di Venezia del 1990, ottenendo un riconoscimento internazionale. L’installazione consiste in una serie di 24 blocchi di pietra di dimensioni diverse posti sul pavimento della sala espositiva. I pigmenti, disposti in modo da creare una sensazione di vuoto e profondità, invitano gli osservatori a esplorare il rapporto tra spazio, materia e colore, contribuendo a creare un’esperienza sensoriale e visiva unica che induce a meditare sul significato simbolico e metafisico di spazio e materia. In “Angel” (1990), grandi pietre di ardesia, rivestite da numerosi strati di pigmento blu intenso, sembrano solidificare l’aria, trasformando il concetto stesso di purezza in un elemento materiale tangibile. Invitando gli spettatori a immergersi nella loro illusoria profondità, Kapoor evoca un senso di mistero che risponde all’ambizione esoterica di raggiungere la fusione degli opposti. “Se l’arte ha a che fare con qualcosa, è senz’altro la trasformazione. Si tratta di cambiare stato alla materia. Questo non desiderando il suo passaggio da uno stato all’altro, ma attraverso uno strano processo di manipolazione di cui non saprei proprio come parlare. Sono sicuro che se con insistenza che queste forme sono uscite da una cava come blocchi blu di Prussia, mi credereste”, dice Kapoor (Cit. Catalogo Untrue) che l’anno dopo, nel 1991, vince per il suo originale contributo all’arte contemporanea, il prestigioso Turner Prize.
Specchi e materiale riflettente
Sempre negli anni Novanta, Anish Kapoor inizia a sperimentare l’utilizzo di materiali riflettenti come gli specchi, l’acciaio inossidabile e il vetro per creare opere che si integrano nell’ambiente circostante, sfidando i confini tra spazio interno ed esterno. Questo approccio innovativo ai materiali riflettenti consente a Kapoor di affrontare concetti di identità, spazio e percezione in modo più profondo e coinvolgente. Gli specchi diventano elementi chiave nelle sue creazioni, poiché grazie alla possibilità di riflettere e deformare spazi e forme, possono dare agli spettatori un’esperienza visiva e percettiva unica. Lo specchio per Kapoor non rappresenta semplicemente una prospettiva esterna sul mondo poiché, in realtà, ciò che solitamente intendiamo come “punto di vista esterno” non è affatto esterno. Piuttosto, è solo uno dei molteplici punti di vista possibili nel vasto universo che contempla e apprende dall’universo stesso, proprio come ogni altro punto fa nell’universo. Questo apprendimento si basa sulla sua stessa esistenza nell’universo: la sua posizione, la sua storia, la sua unicità e le sue caratteristiche peculiari. Ogni punto di vista è soggettivo, legato alla sua oggettività, alla sua materialità e alla sua completa integrazione con il mondo circostante. Quindi, il cosiddetto “punto di vista esterno” è solo uno tra molti. Non esiste un unico specchio che riflette tutto, ma ogni entità è un riflesso di sé stessa e del mondo che la circonda. Opere come “Sky Mirror” (1997) e “Turning the World Upside Down” (1996) suscitano un senso di meraviglia e stupore grazie alla loro capacità di trasformare e distorcere la percezione dello spazio e del tempo. “Sky Mirror” (1997) presenta una vasta superficie riflettente in acciaio inossidabile che crea un’illusione di infinità e apertura nello spazio circostante. Quest’opera sfida la percezione dello spettatore, spingendolo a riflettere sulla sua relazione con il cielo e l’infinito. “Turning the World Upside Down” (1996) è una monumentale scultura caratterizzata da una forma concava e riflettente che crea un sorprendente effetto ottico, apparentemente rovesciando la percezione dello spazio e del tempo. Manipolando in questo modo la percezione dello spazio e del vuoto circostante, Anish Kapoor porta gli spettatori a riconsiderare la propria comprensione dell’ambiente e della realtà. Un’intenzione questa che Kapoor approfondirà negli anni Duemila con “Cloud Gate“, realizzata nel (2004-2006) meglio conosciuta come “The Bean”. Questa gigante scultura riflettente, che domina nel centro di Chicago, crea un’esperienza distorta dello spazio circostante e delle persone che lo attraversano. Un’altra opera significativa che esplora la relazione tra spazio, vuoto e materia è “Descension” (2014). Questa installazione presenta un’enorme piscina nera di acqua in movimento, che sembra sprofondare nell’infinità. Con essa Kapoor crea un’esperienza viscerale del vuoto e dell’immensità dello spazio, invitando il pubblico a confrontarsi con la propria percezione di questi concetti attraverso un’esperienza fisica e sensoriale.
La riflessione sull’interconnessione del mondo moderno negli anni Duemila
Negli anni Duemila il mondo ha vissuto un periodo di trasformazione sociale e culturale senza precedenti, caratterizzato dall’espansione delle nuove tecnologie e dalla crescente interconnessione globale. L’avvento e lo sviluppo sempre più accelerato di Internet, dei social media, dei dispositivi mobili e delle tecnologie digitali hanno profondamente e velocemente trasformato il modo in cui le persone comunicano, lavorano e interagiscono. L’evoluzione tecnologica della comunicazione ha ridotto le distanze fisiche, abbattuto le barriere linguistiche e culturali, e creato una società sempre più interconnessa e interdipendente con tutta una serie di conseguenze nel bene e nel male. Tra gli aspetti negativi, la minaccia crescente del terrorismo internazionale. Gruppi terroristici come Al-Qaeda e successivamente lo Stato Islamico hanno sfruttato la globalizzazione per reclutare, finanziare e coordinare attacchi in diverse parti del mondo. Ciò ha generato paura, instabilità e ha alimentato una sensazione diffusa di insicurezza che ha portato a un aumento della sorveglianza e delle restrizioni nei confronti delle libertà civili. Inoltre, ha contribuito a una crescente polarizzazione sociale e politica, con l’emergere di sentimenti di xenofobia, discriminazione e odio nei confronti di gruppi specifici. La diffusione delle fake news e dei discorsi d’odio online ha sollevato preoccupazioni riguardo alla manipolazione dell’opinione pubblica e alla polarizzazione sociale. Inoltre, la dipendenza crescente dalle tecnologie digitali ha sollevato interrogativi sulla privacy, sulla sicurezza dei dati e sull’impatto sulla salute mentale. Con la sua arte Anish Kapoor si è trovato al centro di questo tumultuoso periodo, trasformando le sfide e le opportunità offerte dal contesto degli anni Duemila in una serie di opere che riflettono le complessità del tempo.
Diversità, inclusione, uguaglianza e ambiente
Gli anni Duemila hanno visto emergere un fervido dibattito sulla diversità culturale, sull’inclusione e sull’uguaglianza. Tutte tematiche che Kapoor ha affrontato con opere che invitano a riflettere sul significato profondo della diversità e dell’unità nell’esperienza umana in un mondo sempre più interconnesso. “Cloud Gate” (2006), di cui si è detto sopra, la famosa scultura pubblica di Chicago, nota come “The Bean“, ne è un esempio eclatante. La sua superficie riflettente offre uno spazio in cui le persone di diverse origini possono vedersi riflesse e condividere l’esperienza della diversità in un ambiente urbano condiviso. Con “ArcelorMittal Orbit” completata a Londra nel 2012 in occasione dei Giochi Olimpici estivi, Kapoor ha creato uno spazio pubblico che invita le persone a riflettere sul ruolo che hanno nel contesto urbano e globale. Kapoor ha affrontato le crescenti sfide ambientali e sociali del ventunesimo secolo attraverso opere come “Descension” (2014) che esplorano metaforicamente le ferite del mondo contemporaneo, invitando gli spettatori a confrontarsi con le conseguenze dell’azione umana sull’ambiente e sulla società. “Descension” consiste in un’enorme buca scura che sembra inghiottire l’ambiente circostante. Kapoor l’ha descritta come una metafora per le forze oscure e misteriose che permeano la società contemporanea, inclusi i conflitti culturali e sociali che possono emergere quando non si accetta la diversità, non si combattono le fake news e si promuove l’odio sociale.
Terrorismo, odio sociale, fake news
Anish Kapoor ha esplorato questioni legate al terrorismo, all’odio sociale e alle notizie false tramite opere d’arte che mettono in luce le conseguenze negative di tali fenomeni. Le sue creazioni mirano a condurre gli osservatori a considerare le implicazioni dannose di tali fenomeni e sottolineano l’importanza di promuovere valori come la tolleranza, l’empatia e la verità nella società odierna. “Non-Object (Door)” (2008): l’opera consiste in una porta di acciaio che si apre su uno spazio apparentemente vuoto. Quando gli spettatori si avvicinano per attraversare la porta, scoprono che non si apre, rivelando così l’illusione dell’accesso e la frustrazione dell’aspettativa. Questo lavoro può essere interpretato come una riflessione sulle barriere fisiche e simboliche create dal terrorismo e dall’odio sociale. “Dirty Corner” (2015): quest’opera famosa, installata nel giugno 2015 nel Giardino della Reggia di Versailles in Francia, consiste in un’enorme struttura di acciaio che si sviluppava in modo organico e contorto, creando un effetto visivo impressionante. La sua forma ricorda vagamente una caverna o un passaggio, con un ingresso aperto che invita i visitatori a entrarci. In superficie le varie sfumature di colore e texture danno l’effetto di un’opera dinamica e in continua trasformazione a seconda della luce e dell’angolazione di osservazione. Poco dopo la sua installazione, la scultura è stata oggetto di vandalismo con graffiti razzisti e antisemiti. Kapoor, noto per aver difeso apertamente i diritti dei rifugiati, dei migranti e per aver condannato le discriminazioni di ogni sorta, ha rifiutato il ripristino dell’opera danneggiata. Questa decisione era motivata dalla volontà di far emergere ancora più chiaramente il messaggio contro l’odio e le sue conseguenze distruttive. Kapoor riteneva che lasciare visibili i segni dell’atto vandalico avrebbe potuto ancora di più trasformare la sua scultura in una metafora delle tenebrose e devastanti conseguenze dell’odio e della violenza che possono infiltrarsi nella società. “Shooting into the Corner” (2009), un’opera che comprende un cannone che spara proiettili di cera in un angolo della stanza, creando un accumulo di materia che progressivamente si trasforma in un monte informe. Questa installazione può essere interpretata come una riflessione sul ciclo di violenza e distruzione che può derivare dall’intolleranza e dalla mancanza di accettazione delle differenze culturali.
Il colore rosso e il sangue
Il colore rosso è sempre stato una presenza potente e suggestiva nell’arte di Anish Kapoor. “Uso molto il rosso. È vero che nella cultura indiana il rosso è qualcosa di potente, e il colore della sposa, si associa al matriarcale, che nella psicologia indiana è centrale. Il rosso ha una sicurezza molto forte. Questo colore palese, aperto e visivamente invitante è associato anche a un mondo interiore oscuro”, (Anish Kapoor in N. Baume, Mythologies in the Making. Anish Kapoor in Conversation with Nicholas Baume, Anish Kapoor: Past, Present, Future, Boston-Cambridge 2008, p.p. 64-65) ha dichiarato l’artista. Per Kapoor, il rosso non è solo un colore, ma una metafora che evoca una vasta gamma di significati e sensazioni. Il rosso può rappresentare il sangue che scorre nelle vene, simbolo della vita stessa e della vitalità umana. Allo stesso tempo, il rosso può evocare la ferita, il dolore e la morte, offrendo una riflessione sulla fragilità e sulla precarietà dell’esistenza umana. Con “Svayambh” (2007), la monumentale scultura inizialmente ospitata al Museo di Arte Contemporanea di San Diego, in California, Kapoor invita gli spettatori a una profonda riflessione sulla vulnerabilità e sulla fragilità dell’essere umano, nonché sull’essenza stessa della vita e della trasformazione suggerendo che la diversità è una caratteristica intrinseca e vitale dell’esperienza umana. Composta da un’enorme massa di cera rossa, l’installazione sembra crescere e mutare in modo organico, creando una presenza imponente nell’ambiente circostante. La superficie è caratterizzata da una tonalità rossa intensa che richiama l’immagine del sangue. Per Kapoor il sangue è spesso utilizzato come un potente simbolo di vita, morte e trasformazione, che invita a riflettere sulle complessità dell’esistenza umana e sull’interconnessione tra la materialità fisica e l’esperienza emotiva. Il nome della scultura, “Svayambh“, deriva dal sanscrito e trasmette il significato di “auto-esistente” o “auto-generato”. Nella filosofia induista e buddhista, è spesso usato per descrivere divinità o concetti che emergono o sorgono spontaneamente senza dipendenza da cause esterne. Può essere associato all’idea di origine primordiale o di assolutezza intrinseca. In termini di presentazione, “Svayambh” può manifestarsi attraverso concetti astratti, simboli, o anche rappresentazioni fisiche come immagini sacre o oggetti rituali che incarnano l’idea di auto-esistenza o auto-generazione. Nella scultura di Kapoor la materia sembra prendere vita e trasformarsi di fronte agli occhi dello spettatore, suscitando una sensazione di inquietudine e ansia di fronte al mutamento e alla trasformazione.
Il colore rosso e la pelle
Per Kapoor la pelle è vista invece come un confine tra l’interno e l’esterno del corpo, un elemento simbolico per riflettere su questioni legate all’identità, alla trasformazione e alla percezione sensoriale. “La pelle è una costante in tutto ciò che ho affrontato con il mio lavoro da vent’anni a questa parte. È quello che separa una cosa dal suo ambiente, ma è anche la superficie sulla quale, o attraverso la quale, leggiamo un oggetto. È il confine dove il bidimensionale incontra il tridimensionale. Affermazioni che possono sembrare ovvie, ma che a ben guardare rivelano tutto un altro processo. Nella pelle c’è una sorta di realtà implicita che ritengo meravigliosa”, dice Anish Kapoor. (D. De Salvo, C. Balmond, Marsyas, London 2002, p.64) Attraverso l’uso di materiali e texture che ricordano la pelle umana, Kapoor crea opere che invitano gli spettatori a esplorare il proprio rapporto con il corpo e con il mondo esterno. Le superfici lisce e levigate, o le pieghe e le rughe che ricordano la pelle, possono evocare sensazioni di intimità, vulnerabilità o mistero, a seconda del contesto e dell’interpretazione dell’opera. In particolare, per Kapoor la pelle diventa un motivo ricorrente che suggerisce una serie di associazioni emotive e concettuali. Essa può rappresentare la superficie del corpo umano, ma anche la nostra percezione di identità e individualità. Attraverso l’uso della pelle e delle sue variazioni cromatiche, Kapoor invita così gli spettatori a riflettere sulla vulnerabilità dell’essere umano e sulla complessità delle relazioni interpersonali. Negli anni Duemila, il rosso e i simboli associati al sangue e alla pelle assumono nelle opere di Kapoor un significato ancora più profondo e carico di tensione. L’artista nel 2002, l’anno dopo il drammatico attentato terroristico alle Torri Gemelle, realizza “Marsyas“, una monumentale scultura rossa che invita gli spettatori a riflettere sulla vita, la morte, la sfida e le conseguenze delle proprie azioni. Il nome dell’opera è ispirato a Marsyas, un satiro della mitologia greca che sfidò Apollo in una gara musicale e fu poi punito per la sua presunzione. Come suggerisce il nome e la vicenda mitologica di Marsya, gli esseri umani possono trovarsi ad affrontare le drammatiche conseguenze delle proprie azioni e della propria arroganza. Il rosso intenso dell’opera evoca sia la passione e la vitalità della vita, sia il dolore e il sangue delle tragedie umane. La monumentalità dell’opera rappresenta la grandezza e la potenza dell’umanità, ma anche la sua capacità distruttiva quando non è guidata da principi etici. “Marsyas” diventa così un potente simbolo che spinge gli spettatori a riflettere sulle proprie azioni e sulle loro conseguenze, sulla fragilità e la bellezza della vita umana ma anche sul suo lato più torbido e oscuro.
Giornalista