TEATRO & SPETTACOLO
GIANCARLO SEPE “Il mio teatro che scava nell’anima e crea empatia”
Curiosità, passione e sincronia. Per Giancarlo Sepe, regista e fondatore del Teatro La Comunità, sono le parole chiave alla base del suo modo di fare e allestire gli spettacoli teatrali. Con la sua ideologia di pensiero che racconta in questa intervista…
“Dai miei spettacoli di solito non ricavo durante la lavorazione nessun tipo di certezza, perché il tempo che dedico alle prove è di tre o anche quattro mesi. E più ci si addentra nella materia messa al centro della nostra attenzione, più crescono i dubbi. Quando proviamo, e parlo sempre al plurale perché il mio teatro è totalmente corale da sempre, l’umore della compagnia passa dall’esaltazione allo scoramento più profondo. Poi accade che una volta pronti per la scena, non siamo più sicuri di nulla, e però ci sentiamo con la coscienza a posto, almeno con quella”. È un maestro Giancarlo Sepe, regista teatrale con una carriera lunga così, che inizia bruciando le tappe, da giovanissimo, negli anni del boom economico, i favolosi Sessanta.
Oggi il suo teatro La Comunità fondato a Roma, di anni ne festeggia 50 Era il 1972 quando Sepe fondò la Comunità Teatrale Italiana e poi il teatro La Comunità, sempre a Roma. Fatalmente la sua strada lo ha portato da molti anni a scegliere Firenze – o forse è Firenze che ha scelto lui – per rappresentare le sue prime nazionali, i suoi straordinari esperimenti di spettacoli che ancora non hanno uguali in Italia. Sepe lascia un segno, un po’ come Zorro, e poi sparisce forse per anni, o forse per mesi e poi riappare nella sua aura di pazienza zen che interroga dal palcoscenico sulle urgenze della cultura. Come pensasse con quale sentire comune si possa entrare in sintonia con il suo grande pubblico.
Quale dubbio o riflessione ha bisogno di prescriverci per un nuovo spettacolo, Sepe?
(Sorride) “Ho un’anima da ricercatore e un solo comandamento per lo spettacolo che metto in scena: mi deve divertire la varietà di quello che faccio. È una cosa che mi coinvolge e responsabilizza, perché non c’è niente più noioso del teatro noioso. Da sempre preferisco lavorare con giovani talenti, perché ricevo da loro forti sollecitazioni, che altrimenti non avrei. La curiosità è ciò che mi spinge ad affrontare autori diversi e dar loro una rilettura attraverso il mio lavoro registico. Ho iniziato con autori stranieri come Vassiliev, Gogol, Williams, Beckett, Brecht, Jarry, Lorca, Sartre, Horowitz e altri, compresi Kafka e Lorca. Ma negli anni Settanta si richiedeva quella cultura basica e profonda che ha dato il via a decine di manifestazioni di riflessione, a pagine di teatro immense e immediate, dove il pubblico si è rivisto e immedesimato. E questo è stato il motivo del mio passo verso il teatro italiano, quando ho ideato e scritto spettacoli che hanno ricevuto grandi consensi come Scarrafonata, In Albis, Accademia Ackerman, Cardio Gay, Cine, Favole di Oscar Wilde e altri. Attraverso questi ho poi stretto sodalizi con artisti con attori amici come Aroldo Tieri, Giuliana Lojodice, Romolo Valli, Mariangela Melato, Ottavia Piccolo e Monica Guerritore: che senso avrebbe aver vissuto così a lungo se non saper raccontare quello che è successo all’adolescente Giancarlo, cioè agli adolescenti che sono in noi? È il messaggio del mio fare teatro”.
Maestro il suo teatro, primo esempio in Italia, è da sempre caratterizzato dalla sincronia degli interpreti, dall’uso sapiente di luci e musiche
“Sono il risultato delle forti sollecitazioni dei testi rielaborati e dal ritmo che impongono certi concetti e concezioni che debbono essere cadenzati da musica e luci, un compendio dello spettacolo appunto sono le luci particolari. Ho coltivato questa cosa lavorando molto con un grande scenografo di enorme sensibilità come Uberto Betacca. Con lui ho capito che il teatro non è una requisitoria o un comizio senza ideologia. Ma che stava a metà tra la preghiera laica e la provocazione: il teatro è confessione, un -diciamo- comizio di buona volontà, un testamento allegro che rappresenta non solo il mio gusto, ma anche l’ideologa del mio pensiero”.
Con il debutto alla Pergola di Firenze tutti potranno conoscere la storia del critico cinematografico Bazin proprio per onorare i cinquant’anni del suo Teatro La Comunità.
“Sono da sempre di una curiosità allarmante anche sulle cose che non mi interessano: voglio non chiudere pregiudizialmente, mi avventuro nei generi della storia e per questo ecco apparire André Bazin, critico e teorico del cinema, che è stato creatore dei “Cahiers du cinéma”, e quello che ha trasformato i giovani critici rendendoli poi registi e creando assieme ad altri come Truffaut, la Nouvelle vague. Volutamente non ho cercato una narrazione logica, ma il racconto di un uomo che sente di dover morire, e quando vive quel momento, per paura di dimenticare qualcosa. È lui il protagonista che ci racconta della necessità del cinema per l’uomo e della sua arte. Bazin si pone un interrogativo: cos’è il cinema? Ed era aperto alla trasformazione accelerata di questa tecnologia che guardava, visti i tempi, anche con sospetto. Ma non mi fermo qui, adesso il mio sogno sarebbe un bello spettacolo del tipo cappa e spada, mi piacerebbe fare anche quello e, anche se non ho ancora preso appunti, intanto mi porto avanti nel pensiero per cose nuove da sperimentare. Una mia caratteristica è non fermarmi mai, guardare avanti a fare, per un certo senso dimenticare il passato, e lo stesso farne tesoro per crescere”.
Ha un ricordo particolare legato a Firenze e alla Pergola?
“Intanto penso che in tempi futuri sarà possibile che mi fermerò di più e già so che dal prossimo mese inizierò a fare alcuni provini. Poi è da qui che in un certo senso è partito il mio successo. Direzione della Pergola di Alfonso Spadoni, una persona illuminata e conosciuta da tutta Italia, gli proposi Scaraffonata nel ’75 e così debuttò. Firenze è terribile come città, tutti i teatranti lo sanno, e azzardai proponendo uno spettacolo che durava solo 45 minuti, quasi impensabile per quei tempi. Andò comunque in scena: ricevette 33 minuti di applausi ininterrotti. Fece epoca su tutta la stampa e non solo nazionale”,
Sepe, quali sono stati i suoi maestri?
“Sono un autodidatta, ho iniziato da piccino piccino, coi miei compagni di giochi, avevo 5 anni e già sentivo dentro il fuoco sacro del teatro che mi illuminava la strada, e non lo dico per dire. In questo primo spettacolo sono riuscito a mettere insieme i miei compagni di giochi, uno vestito da cowboy, uno da Pulcinella, un altro da pellerossa e inventarmi una specie di processo. L’idea della rappresentazione ce l’ho sempre avuta”.
Si sente la freschezza dei testi anche dalla platea.
“Perché scatta sempre un’empatia tra noi, tra pubblico, attori e regista, e questo aiuta a lavorare di più e meglio. La musica e il movimento fanno il resto assieme alla voglia di mettersi in discussione, nonostante quel che sembra sono molto severo anche se il lavoro risulta giocoso: in scena mi danno la loro versione dei fatti, con il loro modo di muoversi anche perché sanno bene quanto sia contrario a personaggi codificati. Cerco sempre qualcosa in più da scoprire”.
Che carattere ha Sepe?
Sono un po’ orso, diciamo un carattere chiuso. Quando sto con gli altri in altre situazioni che non siano legate allo spettacolo penso come di perdere tempo e proprio non ci so fare. Ma col pubblico, teatralmente, sono molto diretto e non infingardo anzi, assimilabile. Perché c’è questo humus della cultura che arriva, ti arricchisce e ti sconvolge: e ti sa restituire quello che sei. Non mi vergogno ad amare i miei essere umani imperfetti, appassionatamente egocentrici che finiscono per diventare gli alleati migliori di una grande parte di noi”.
“Ho un’anima da ricercatore e un solo comandamento per lo spettacolo che metto in scena: mi deve divertire la varietà di quello che faccio”
Con Bazin, in scena l’amore puro per l’arte e il cinema
Come in un film surreale, Bazin, lo spettacolo di Giancarlo Sepe che ha debuttato nel Saloncino ‘Paolo Poli’ del Teatro della Pergola di Firenze dal 25 al 30 ottobre scorso, non ha una narrazione logica, ma…
Come in un film surreale, Bazin, lo spettacolo di Giancarlo Sepe che ha debuttato nel Saloncino ‘Paolo Poli’ del Teatro della Pergola di Firenze dal 25 al 30 ottobre, non ha una narrazione legata alla logica, anzi, sembra che il tutto sia raccontato da un uomo che sente di dover morire, e in quel momento, per paura di dimenticare qualcosa, parla della necessità del cinema e della sua arte. Cos’è la paura di dimenticare la cosa più bella del mondo? Un incubo, una giostra infernale, come se gli stessi attori di cui lui racconta si facessero avanti per non essere dimenticati, e non solo loro, ma anche il pubblico si fa avanti, perché sta per perdere il suo cantore, il suo mentore e non avrà più chi potrà ricordare loro la magnificenza di Chaplin.
André Bazin, critico e teorico del cinema, è stato il creatore dei “Cahiers du cinéma”, colui che ha trasformato i giovani critici rendendoli poi registi, creando la Nouvelle vague. Come in un film surreale lo spettacolo di Sepe, con cui festeggia i 50 anni di attività del suo Teatro La Comunità di Roma (1972-2022), non ha una narrazione logica, anzi, sembra il racconto di un uomo che sente di dover morire, e in quel momento, per paura di dimenticare qualcosa, parla della necessità del cinema e della sua arte. Bazin, nato il 1918 e morto nel 1958, con la sua salute cagionevole non aveva mai perso la gaiezza, né la forza del ragionamento, Bazin era la logica in persona, l’uomo della ragion pura, un dialettico meraviglioso. Diceva: «La funzione del critico non è quella di portare, su un piatto d’argento una verità che non esiste, ma quella di protrarre il più a lungo possibile nell’intelligenza e nella sensibilità dei suoi lettori, l’impressione ricevuta dall’opera d’arte». Odiava il montaggio e amava il piano sequenza, odiava la morte come atto non riproducibile sulla pellicola perché contraria alla creazione. Cattolico e comunista, nella sua sintesi critica amava dire che il cinema dovrebbe cercare di esprimersi tra Lumière e Méliès: un insieme tra didattica e fantasia. Per questo non era amato da nessuno.
Non è detto che quel che succede sulla scena e che ha per protagoniste e protagonisti Claudia Gambino, Francesca Patucchi, Federica Stefanelli, Guido Targetti, e Pino Tufillaro, corrisponda alla verità: Bazin potrebbe essere anche un contenitore, o una metafora dell’intellettuale, messo ai margini della storia, un diffidato, uno schedato dall’establishment, uno che non raggiungerà mai il potere.