INTERVISTA
JESSICA PRATT “Norma non è solo una sfida, ma anche un viaggio interiore”
In questa intervista personale ad ArteCultura Magazine, Jessica Pratt rivela come il ruolo di Norma nel celebre dramma di Bellini rappresenti per lei non solo una prova artistica ma anche un percorso di crescita interiore. E condivide, con una connessione emotiva palpabile, come ogni nota e parola del ruolo contribuisca a scolpire la sua evoluzione sia come artista che come individuo.
Bellissima con le caratteristiche classiche della fata: gli occhi azzurri, capelli biondi, espressione dolce, lineamenti perfetti. Dopo una carriera straordinaria nel repertorio belcantista, Jessica Pratt, inglese di Brisol, poi naturalizzata australiana e infine italiana di adozione, affronta per la prima volta un ruolo che da anni le veniva offerto: Norma, la sacerdotessa druidica protagonista dell’omonima opera di Bellini. Un debutto importante, che avviene in un teatro che ormai considera casa, il Maggio Musicale Fiorentino.
Debuttare in Norma è un momento cruciale per ogni soprano. Come ha deciso che fosse arrivato il momento giusto per affrontare questo ruolo?
“Norma è un’opera che ho sempre amato e che considero una delle più belle mai scritte. Mi è stata offerta spesso nel corso della mia carriera, fin da quando avevo 28 anni, ma ho sempre detto di no. Sentivo che non era il momento giusto. Per me affrontare un ruolo del genere significava maturare non solo vocalmente, ma anche artisticamente ed emotivamente. Ho voluto percorrere un cammino preciso con Bellini: prima Beatrice di Tenda, poi La Straniera, e solo dopo ho sentito di poter affrontare Norma con la giusta consapevolezza”.
Quali sono le sfide di questo ruolo?
“Norma è una parte estremamente complessa: richiede una grande abilità non solo lirica, ma anche belcantista. Vocalmente, però, è più “sana” rispetto ad altri ruoli come Traviata, se si segue fedelmente lo spartito senza lasciarsi condizionare dalle tradizioni esecutive. Inoltre, per interpretare un ruolo del genere serve un training specifico. La voce cambia con l’età, si scurisce, e se non la spingi puoi aprire il centro in modo più naturale. Ho sempre lavorato molto sul belcanto, studiando Donizetti e Bellini, e questa esperienza mi ha dato gli strumenti per affrontare il linguaggio belliniano. Il mio percorso con Donizetti, poi, mi ha preparata a Verdi, mentre Rossini – di cui ho interpretato 15-16 ruoli – mi ha allenata alla resistenza. Norma può sembrare lunga, ma dopo aver affrontato i ruoli rossiniani, si può sostenere meglio la durata della parte”.

Foto di Andrea Ranzi
Quanto influisce la sua esperienza di vita sulla sua interpretazione?
“Moltissimo. Ogni vissuto lascia un segno sulla voce e sull’interpretazione. Ricordo che a 19 anni cantavo un Lied di Strauss in un certo modo, ma quando è morto il mio primo cane, ho capito che il mio modo di interpretarlo era completamente sbagliato. Quando ho perso mio padre, questo aspetto si è accentuato ancora di più. Prendiamo Lucia di Lammermoor: la canto ogni anno, e ogni volta è diversa, perché la vita mi ha dato nuove esperienze e nuove riflessioni”.

Roberto Devereux. Foto di Gianfranco Rota
Ha sempre sognato di diventare una cantante lirica?
“Sì, ma la musica è stata un gioco per me. Mio padre era un tenore e voleva che i suoi figli facessero musica. Ho iniziato suonando la tromba a 12 anni, e i nostri giochi d’infanzia erano musicali: facevamo solfeggio, mio padre cantava una linea melodica e noi dovevamo seguirlo. In macchina, quando eravamo tutti e tre, cantavamo insieme. Mia madre, invece, è un’artista visiva, una pittrice, e io ho sempre amato la scultura. Stavo per entrare all’università come artista, ma alla fine ho scelto il canto. È un po’ come mia madre: lei crea opere bellissime, ma non vuole venderle. Anche io sentivo che le mie sculture erano troppo personali per essere date via, mentre il canto è qualcosa che ho potuto ‘lasciare andare’”.
Cosa significa il successo Jessica?
“Onestamente, la mia vita non è cambiata poi tanto. Vado a lavoro, canto, torno a casa e mi prendo cura del mio giardino. L’unica vera differenza è che ora posso scegliere i colleghi con cui lavorare e avere più controllo sulle produzioni a cui partecipo. Questo è fondamentale per me”.

Foto di Andrea Ranzi
Come affronta la crescita artistica?
“Sono molto severa con me stessa. Non mi accontento mai, non guardo nemmeno i miei video perché trovo sempre qualcosa da migliorare. Mio padre, che era un tenore, mi diceva sempre: ‘Non prepararti a fallire, prova fino in fondo’. È il consiglio che seguo ancora oggi. La lirica è un lavoro di disciplina: le scale, gli esercizi di fiato, le cose più semplici sono quelle più importanti. È come il giardinaggio: ogni giorno si fa qualcosa e, con il tempo, i risultati arrivano”.
E infatti ora debutta anche in Lucrezia Borgia…
“Sì! E mio marito mi ha già chiesto: “Stai piantando oleandri: non starai progettando un giardino dei veleni, vero?” (ride).
Ha avuto momenti difficili all’inizio della carriera?
“Assolutamente sì. Quando sono arrivata in Italia non avevo soldi né un posto dove dormire, ero praticamente senza tetto. Ma io mi sentivo ricca, perché avevo un obiettivo chiaro: diventare una cantante lirica. Mio padre mi ha sempre detto: ‘Non devi trovare un secondo lavoro, non devi avere un piano B. Prova fino in fondo, e se fallisci, allora cambierai strada. Ma non prepararti al fallimento’. La perseveranza è fondamentale in questo mestiere. Le cose noiose, ripetitive, come le scale e gli esercizi di fiato, sono quelle che ti fanno diventare brava. È come il giardinaggio: ogni giorno fai qualcosa, e dopo anni vedi i risultati”.
Esiste un momento magico in teatro?
Sì, ed è quello che cerco sempre di creare con il pubblico. Io lo chiamo silenzio condiviso è la cosa più bella che esista: quel momento in cui trattengo una pausa di silenzio, e sento che il cuore di tutti batte all’unisono. Raggiungerlo è persino più bello degli applausi. Quando riesco a prolungarlo, ho la sensazione che in quel teatro siamo tutti insieme, connessi da qualcosa di invisibile ma potentissimo”.
Come ci è arrivata?
“In un mondo in cui siamo sempre più isolati dietro gli schermi, questa sensazione è una delle poche esperienze in cui ci sentiamo parte di un tutto. Un tempo succedeva in chiesa, quando si cantava insieme. Oggi accade forse solo allo stadio o in teatro. È la cosa più importante del nostro lavoro: sviluppare empatia, creare un cuore solo che batte insieme”.
Mio padre mi ha sempre detto: ‘Non devi trovare un secondo lavoro, non devi avere un piano B. Non prepararti a fallire, prova fino in fondo”.

Foto di Andrea Ranzi

Giornalista