INTERVISTA
DACIA MARAINI “Raccontare la guerra ai giovani è un dovere di giustizia e pace”
In questa intervista ad ArteCultura Magazine, Dacia Maraini, una delle autrici più autorevoli e celebri della letteratura italiana contemporanea, ripercorre la sua infanzia segnata dal campo di concentramento in Giappone. Un racconto di coraggio, memoria e resilienza, che diventa monito per le nuove generazioni. “Le esperienze vissute in prima persona hanno un valore che tocca i sensi e i sentimenti”, dice, presentando il suo ultimo libro Vita mia.
“Raccontare la mia esperienza non è stato facile, ma sento il dovere di far capire cosa significhi vivere la guerra, soprattutto ai più giovani. La vendetta non è mai la risposta giusta: ciò di cui il mondo ha bisogno è giustizia e pace, per fermare ogni conflitto e liberare le donne da ogni forma di oppressione”. Così Dacia Maraini, la più importante scrittrice italiana, riassume il senso di questa sua ultima, straordinaria fatica letteraria, grande successo editoriale, l’opera si intitola: “Vita mia” (Rizzoli). Un incontro ravvicinato che ci voleva, un parlare illuminato in questo periodo non esattamente edificante.
Cosa l’ha spinta a raccontare questa parte così personale e drammatica della sua infanzia?
“Il racconto sul campo di concentramento l’ho cominciato tante volte, ma non riuscivo a finirlo. Ora, con l’arrivo di minacce di guerra, mi sono forzata a finirlo. Credo sia importante far capire cosa vuol dire una guerra”.

Il libro di Dacia Maraini, “Vita mia”, edito da Rizzoli
Quanto è stato difficile rievocare quei ricordi e trasformarli in un’opera letteraria?
“È stato doloroso, ma anche utile, perché mi ha fatto prendere le distanze da quelle esperienze. Inoltre, molti episodi che avevo cancellato dalla memoria mi sono tornati in mente scrivendo”.
Come descriverebbe la vita della sua famiglia in Giappone prima del conflitto?
“La vita a Sapporo in quegli anni di studio della popolazione degli Ainu e della piccola casa di legno fra i boschi, è stata felice”.
Che rapporto avevano i suoi genitori con la cultura giapponese e quanto questa li ha influenzati?
“Direi buono. Non posso dire quanto abbia influito sulla loro visione del mondo, ma di certo qualche influenza l’ha avuta, e non direi negativa”.
Fosco e Topazia hanno scelto di non giurare fedeltà alla Repubblica di Salò, una decisione che ha avuto conseguenze gravissime. Cosa pensa oggi di quel gesto?
“Penso che il gesto dei miei genitori sia stato un atto di coraggio che ha costituito un modello per la mia vita. Mi ha insegnato che, per difendere le proprie idee, si possono e si devono affrontare anche difficoltà e sacrifici”.
Quanto è stata consapevole, da bambina, della portata di quella scelta?
“Naturalmente allora non ero consapevole della portata di quella scelta. Eppure, l’ho sentita come giusta e naturale. Non ho mai pensato che i miei genitori avessero sbagliato”.

“I ricordi sono tanti e li ho raccontati nel mio libro “Vita mia”. Comunque, sono quasi tutti legati alla fame, che era lo strazio quotidiano su cui giravano le nostre giornate”, dice Dacia Maraini
Quali sono i ricordi più vividi di quel periodo?
“Gli episodi sono tanti e li ho raccontati nel mio libro Vita mia. Comunque, sono quasi tutti legati alla fame, che era lo strazio quotidiano su cui giravano le nostre giornate”.
Come hanno affrontato lei e la sua famiglia le privazioni e le difficoltà quotidiane nel campo?
“I ricordi più vividi riguardano i momenti in cui mio padre mi insegnava la geografia e la storia, e mia madre mi raccontava le favole”.
Che figura è stata per lei suo padre Fosco durante quegli anni? E sua madre Topazia?
“Mio padre è stato straordinario. Basti pensare che, per farci dare qualcosa in più da mangiare a noi bambine, si è tagliato un dito con l’accetta. Può sembrare incomprensibile, ma per i giapponesi è un rituale, si chiama yubikiri, e facendolo si crea un’obbligazione al nemico. Infatti, Kazuia, il capo delle guardie, poi ci ha portato una capretta che, con il suo latte, ci ha salvato la vita. Anche mia madre ha mostrato coraggio e serenità durante quei due anni di campo. Pur essendo paralizzata alle gambe per il beriberi e lo scorbuto, si è messa a cucire per i guardiani in cambio di una patata o di una mela da dividere in cinque”.
Pensa che quell’esperienza abbia cambiato il rapporto con loro?
“Quanto l’esperienza abbia influenzato il mio rapporto con loro non saprei dirlo, ma di certo ha consolidato il mio rispetto e il mio amore per loro”.
Quanto questa esperienza ha influenzato il suo percorso di scrittrice?
“Certamente ha sviluppato in me un’immaginazione drammatica, un senso di fragilità e la volontà di resistere”.
Cosa spera che i lettori possano imparare dalla sua testimonianza?
“Non lo so. Certo, capiranno meglio cosa possa essere la guerra vissuta da una bambina”.
Qual è, secondo lei, l’importanza di raccontare le esperienze personali per preservare la memoria storica?
“Direi che è fondamentale. Il racconto di un’esperienza vissuta in prima persona ha un valore che tocca i sensi e i sentimenti”.
Ha mai sentito il bisogno di tornare in Giappone per rivivere o rielaborare quei luoghi?
“Sono tornata tante volte in Giappone, anche perché loro hanno tradotto e pubblicato tanti libri miei, compreso quest’ultimo. Per fortuna avevo imparato nel campo che la gente comune non ci vedeva come nemici, ci compativano e cercavano di aiutarci”.
Come vede oggi il rapporto tra il Giappone e la sua storia durante la Seconda Guerra Mondiale?
“Ho conservato molti amici in Giappone e ci vado spesso. Ci sono stata anche nel 2024 per l’uscita di un mio libro. Sono tornata a rivedere i luoghi della memoria, anche se ci è rimasto poco. A Nagoya non c’è più niente. A Sapporo la vecchia casa di legno c’è ancora, anche se trasformata. È stato commovente rivederla”.
“Il gesto dei miei genitori è stato un atto di coraggio che ha costituito un modello per la mia vita. Mi ha insegnato che, per difendere le proprie idee, si possono e si devono affrontare anche difficoltà e sacrifici”.

Giornalista