ARTE E GASTRONOMIA
Quando l’alta cucina si unisce alla cultura
Il legame tra arte e gastronomia d’eccellenza si rafforza: rinomati musei e gallerie ospitano ristoranti di chef pluristellati, diventando parte integrante dell’esperienza culturale. Una tendenza innovativa in crescita nel mondo che fonde viaggi, arte e sapori.
Donatella Zucca
Da un lato, il boom del turismo culturale, in costante ascesa dagli anni Novanta. Secondo GlobeNewswire, si prevede che questo settore genererà un fatturato di 12 miliardi di dollari entro il 2028, rispetto ai circa 5 miliardi del 2021. Una tendenza trainata principalmente dall’Europa, che rappresenta il 40% delle attività turistiche, con Italia e Germania in prima linea. Dall’altro lato, osserviamo il fenomeno della haute cuisine, o più in generale, della gastronomia di altissima qualità che si avvicina tanto all’arte quanto alla cultura stessa. Nel 2024, quattro delle sette principali tendenze di viaggio identificate da Skyscanner si concentrano sulla cultura e su esperienze enogastronomiche di altissimo livello. Questi due fenomeni paralleli stanno emergendo come protagonisti di una moda contagiosa, che spinge verso una rinascita da vecchi schemi. Questa tendenza è figlia di un’ottica sempre più giovane, in linea con il famoso detto di Steve Jobs “hungry e foolish”, che indica un desiderio ardente di esplorare nuovi orizzonti pur mantenendo un atteggiamento di aperta curiosità e sperimentazione. È un’aspirazione proiettata verso futuri diversi, ma senza dimenticare le radici da cui siamo partiti.
Non è una novità che musei e gallerie d’arte ospitino nei loro spazi accoglienti, e talvolta eleganti, aree ristoro o ristoranti, a Londra la National Gallery lo fa da sempre. Oggi però tutto questo ha raggiunto livelli incredibili, quasi come se l’arte della cucina e suoi piatti fossero capolavori in grado di dialogare con le opere, gli artisti e i messaggi culturali più antichi, più attuali e più sofisticati dei musei. Nel mondo, le eccellenze della viticultura e dell’enologia hanno dinamiche simili a quelle dell’arte, tanto che spesso l’accompagnano, come aveva già riportato un nostro articolo pubblicato nel 2021 su ArteCultura Magazine “Arte e vino, binomio che piace”, lo stesso vale per la cucina di alto livello. Dal prodotto, coltivato con la stessa cura e passione che l’artista dedica alle proprie creazioni, al savoir faire degli chef che lo coniugano in cucina e nelle armonie coronate dal piatto dei suoi sapori, forme e colori. Un messaggio gustativo e visivo ambasciatore del territorio e del momento, per Claude Levi Strauss, il linguaggio con cui “la cucina traduce la struttura di una società”. La sfera dei grandi personaggi fan della cucina è vasta e senza tempo, Andy Warhol considerava artista chi cucina bene, Paul Gauguin diceva che “cucinare suppone uno spirito generoso e un cuore largo”, George Bernard Shaw che non c’è “amore più sincero di quello per il cibo”, Oscar Wilde odiava “le persone che prendono i pasti alla leggera”. Nei suoi scritti, il filosofo naturalista Plinio il Vecchio, vissuto nel primo secolo dopo Cristo, parla spesso del cibo, dei suoi prodotti e della cucina, elargendo consigli, suggerendo e commentando le ricette romane d’allora.
Tornando alla sintonia tra i valori e i ritmi di un museo con l’arte della cucina, oggi si stanno toccando livelli inimmaginabili. Il ristorante In Situ, dello chef tri-stellato Corey Lee situato nel Museo di Arte Moderna di San Francisco, ha concluso nel 2021, come fosse una mostra tematica, cinque anni di elogi alla cucina d’autore grazie alle copie dei piatti di grandi chef mondiali. Oltre cento, firmate dallo chef Corey Lee e il suo team, uguali alle creazioni originali, destinate a chi non vuole inseguire nel mondo i primi autori. Super-chef con cui il ristorante aveva continui contatti per arrivare una esecuzione perfetta, piatti famosi come “Oops! Mi è caduta la crostata al limone” di Massimo Bottura, “Polpo e Corallo” di Virgilio Martinez, quelli di Christian Puglisi e di altri. Diversa invece, la storia ristorante The Modern al MoMa di New York, il più grande museo di arte moderna del mondo, principale punto di riferimento per gli artisti, fucina della creazione, della sperimentazione, di nuovi concept e idee. Un dinamismo proiettato verso il futuro insito nel suo Dna. Quando alla fine degli anni Venti prese vita grazie ai mecenati Lillie P. Bliss, Mary Quinn Sullivan e Abby Aldrich Rockefeller, già sfidava i tempi dedicando i suoi spazi solo all’arte moderna. Oggi una struttura multi-dipartimentale che include architettura, design, pittura, scultura, fotografia, film e molto altro: ognuno con un centro studi per giovani, ricercatori e scienziati. Il museo possiede circa due milioni di fotogrammi di film, la biblioteca e gli archivi custodiscono la principale concentrazione al mondo di materiale di ricerca sull’arte moderna. Annualmente è visitato da milioni di persone attratte da tre secoli di arte ed esposizioni tematiche uniche, oltre a un numero altrettanto cospicuo di artisti, esperti del settore e studenti. Da marzo a settembre al MoMa la mostra Crafting Modernity: Design in Latin America, 1940–1980, mette l’accento su Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Messico e Venezuela, paesi importanti nello sviluppo del design moderno in America Latina. Pare però, che gran parte di chi acquista un biglietto per il museo prenoti anche un tavolo al ristorante The Modern, nonostante un menu serale a 275$, vini esclusi, tra loro bottiglie sopra le migliaia di dollari e del pranzo tra i 150 e 275. Comunque, un’offerta all’altezza delle sue due stelle Michelin, di una recensione a tre stelle sul New York Times, quattro James Beard Awards e il Grand Award di Wine Spectator. Quindi in continua evoluzione, raffinata e attuale, con vista sul giardino delle sculture Abby Aldrich Rockefeller, in sintonia con le opere del museo e i soli 36 anni dell’Executive chef Thomas Allans. A 19 già cuoco al Blue Smoke dell’Union Square Hospitality Group poi studente, vincitore di concorsi prestigiosi ed esperienze esplosive nei templi modiali dell’alta cucina.
Sempre a Los Angeles, The Broad, una delle collezioni più importanti al mondo di arte contemporanea e del dopoguerra, esprime un gemellaggio avanzato e tutto suo col cibo e la ristorazione. Artisti giovani e icone come Jean-Michel Basquiat, Jasper Johns, Jeff Koons, Kerry James Marshall, Takashi Murakami, Cindy Sherman e Andy Warhol, trovano spazi nella sua architettura firmata Diller Scofido + Renfo, in linea col loro mood. Per il suo design chiamata “il velo e la volta”, una struttura a nido d’ape che riveste l’edificio filtrando e modulando la luce naturale, affiancata dal verde del Broad Plaza. Tra i suoi ulivi degli inizi del XX secolo, un mix di cultura, svago e cibo, porta d’ingresso del ristorante Otium, condotto da Timothy Hollingsworth. Un giovane chef formatosi nella Napa Valley che, nel suo ambiente smart casual, offre una cucina fatta d’ingredienti sostenibili e stagionali in parte coltivati nel giardino sopra il ristorante. Niente stelle e prezzi abbordabili, ma una magia degna del regno dell’arte che lo introduce e ispira.
Spostandosi dall’altra parte del mondo, al Mucem il Museo delle Civilizzazioni dell’Europa e del Mediterraneo di Marsiglia, lo chef pluristellato Gerald Passedat alla guida del ristorane La Môle Passedat, situato nei suoi spazi interni ed esterni, ci dice: “Certamente sarà una questione di territorio, di prodotti, dell’arte di prepararli tutt’intorno al bacino del Mediterraneo: ma la dimensione culturale e festosa del Mucem dà una portata completamente diversa all’atto culinario, l’idea non è solo soddisfare l’appetito deliziando grandi e piccini, ma suscitare curiosità ed entusiasmo, favorire scambi e conversazioni attorno alla cucina popolare. Questa è l’ambizione di La Môle Passedat”. Dalla sua nascita nel 2013 il museo è tra i 50 più visitati al mondo, 44.000mq, salvo che per il Centre de Conservation et de Ressurces, dedicato alle civiltà Mediterranee e Fort Saint-Jean. Una fortezza del XVII secolo a picco sul Porto Vecchio che racchiude collezioni d’arte, di tradizione popolare, il ristorante Le Môle Passedat, la scuola di cucina e un orto/giardino Mediterraneo unico, collegata da un camminamento aereo alle architetture avveniristiche del J4. Un complesso architettonico progettato dall’architetto francese Rudy Ricciotti, perfetta espressione del piano urbanistico e di rinascita culturale che ha cambiato volto alla città. Un quadrato che racchiude quello più piccolo in acciaio e vetro del museo, organizzato su tre livelli e coperto dallo stesso rivestimento in cemento filigranato usato per la struttura esterna della costruzione, una sorta di pizzo attraverso cui brillano i colori del mare, che protegge dal calore di raggi del sole diretti, dal freddo e dal vento. Sul tetto una grande terrazza con area ristoro, in parte coperta dal velo di cemento filigranato, e la passeggiata sul bacino del porto, trait d’union tra un’architettura futuristica e quella antica di Fort Sain Jean. Entrato nel 1985 nella cucina del padre al Petit Nice di Marsiglia, dopo un eccellente curriculum scolastico e lavorativo, Gérald Passedat ne prende il comando nel 2000, conquistando nel 2008 la terza stella e riuscendo a mantenerla sino ad oggi. La sua scelta di collaborare col Mucem nasce dalla convinzione che il cibo rientri a pieni voti nella cultura mediterranea, quindi nel mood del museo. Il suo scopo è far riscoprire sapori dimenticati, il primo ingrediente è il pesce, ogni anno ne serve più di sessanta specie stagionali, rifornito da suoi pescatori che lavorano con tecniche tradizionali rispettose del Mediterraneo. Negli spazi del Nucem si esprime a seconda dei ritmi e le esigenze dei clienti, all’ultimo piano del J4, la Table ospita 80 persone e appaga con la vista del mare, La Cuisine è aperta a 130 commensali con servizio al tavolo e a buffet, poi il bistró, il café e il ristorante a Fort Sain Jean.
“Sono un appassionato dell’arte in tutte le sue forme e penso che anche la cucina lo sia in quanto espressione dell’ingegno e della creatività dell’uomo”, ci dice Enrico Bartolini in merito al legame tra le proprie creazioni e il Mudec (Museo delle Culture) di Milano che ospita il suo ristorante. “Talento e territorio è il mantra dei nostri ristoranti, in questo caso siamo all’interno di un museo, in un quartiere simbolo del design, della moda e dell’arte di una città internazionale come Milano. Abbiamo una clientela eterogenea composta da Milanesi, turisti italiani e internazionali in visita al Mudec per le mostre, l’esposizione permanente, l’architettura e per cui anche noi siamo una destinazione. Quando offerta culturale e gastronomica s’incontrano la combinazione è vincente, si raccontano valori e si suscitano emozioni”. Enrico Bartolini è uno dei più importanti chef a livello internazionale e guida il maggior numero di ristoranti stellati in Italia, in questo, le stelle Michelin sono 3. Nato nel 2016 al terzo piano del Mudec, nel cuore milanese del design, il suo ristorante è espressione di una classicità moderna, proiettata nel futuro confrontandosi con la tradizione, fatta di sapori nuovi e combinazioni artistiche in linea con gli spazi architettonici e le opere esposte al museo. Protagoniste della sua mission di centro dedicato alla ricerca multidisciplinare sulle culture del mondo, di luogo di dialogo sulla contemporaneità, di tutela delle espressioni di cultura delle popolazioni. Un’architettura nata nel 2015 da un recupero di archeologia industriale nell’area dell’ex fabbrica Ansaldo, che oltre alle aree espositive comprende una biblioteca con oltre 5000 opere e fondi bibliografici, un auditorium e un teatro per le performance e le arti visive.
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Alla National Gallery di Singapore, lo chef Julien Royer esprime la sua arte culinaria nel ristorante Odette, che vanta ben tre stelle Michelin. In Italia, lo chef Andrea Aprea ne ha prese due col suo ristorante inserito negli spazi della Fondazione Rovati, in Corso Venezia a Milano, con menu da 185 a 210€. Tutti esempi di una lunga lista che conferma l’evidente e indiscusso successo di una tendenza che dovrebbe far riflettere sull’evoluzione e le similitudini dei due mondi coinvolti.
Alfredo Russo e il Dolce Stil Novo nella Reggia di Venaria
Dal legame con il territorio alla dedizione per ingredienti stagionali Alfredo Russo riflette sull’importanza della tradizione e sull’ispirazione di chef come Alain Ducasse.
Vicino a Torino, l’unicità del ristorante Dolce Stil Novo, nella Reggia di Venaria, con le creazioni dello chef e patron Alfredo Russo. Una sola e speciale stella, che dal 1993 mantiene sino a oggi. Alfredo ci spiega qual è il segreto di questa rara continuità. “Come in tutte le professioni, con gli anni s’impara, si prende più confidenza col mondo dell’ospitalità, un mondo complesso perché si lavora con le persone e per le persone. L’esperienza aiuta a trovare soluzioni sempre migliori, questo potrebbe essere il segreto. Dal 2000 Russo collabora anche con le catene alberghiere, in Starshotel ha sviluppato concetti italiani, aperture in India, Cina, Sud-Est Asiatico e altri paesi. Oggi a Londra, ha La Trattoria del The Pelham Hotel a South Kensington e il The Franklin a Knightsbridge, in Turchia con una catena di lusso, a Doha il Dusit Hotel & Suites-Doha e in futuro l’Arabia Saudita.
Quale è il legame tra le creazioni del Dolce Stil Novo e la Reggia?
“Noi abbiamo uno stile di cucina e di lavoro, indipendentemente da dove siamo o ci troviamo. Certamente, lavorare in un luogo come questo è un privilegio assoluto, per storia e bellezza, e questo porta a farlo in un modo diverso. In generale, ci ispiriamo alla cucina italiana a partire dai prodotti, rigorosamente stagionali, una cucina alleggerita dove gli ingredienti base sono protagonisti, ognuno con una sua personalità e un sapore preciso. Il ristorante ha diversi orti per le erbe aromatiche, le verdure e i prodotti stagionali, tutto nasce in casa e, dalla pasta alla pasticceria, è eseguito con grande dedizione. Ciò che ci rappresenta meglio è la consapevolezza di fare una cucina solida legata al territorio e alle tradizioni, con uno sguardo al futuro, ma senza stravolgere. La gastronomia è diventata una moda e spesso punta all’effetto wow, a stranezze o discorsi che non ci interessano, da noi prevalgono i fondamentali della cucina, rispetto all’estetica o alla voglia di diversità.
Lei mi ricorda molto Alain Ducasse ai suoi inizi quando rivoluzionò la cucina francese
“Ducasse mi è sempre piaciuto tanto, sin dai miei primi fine settimana a Monte Carlo. Tra l’altro ci accomuna una cosa, lui ha un ristorante nella Reggia di Versailles e insieme abbiamo persino fatto degli eventi. Prima però c’è stata Venaria, almeno come tempistica noi siamo arrivati primi. Ristoranti nelle regge non ce ne sono tanti e Ducasse è straordinario, un personaggio che da sempre ammiro moltissimo”.
Sempre all’altezza del suo prestigio, Alain Ducasse incanta con il ristorante Grand Contrôle des Airelles nel Castello di Versailles, aperto nel 2021 e già insignito di una stella Michelin. L’ambiente regale del XVIII secolo, arricchito da manufatti pregiati e dettagli curati, accoglie una cucina tradizionale rivisitata, celebrando la stagionalità e la qualità dei prodotti. A Parigi, Ducasse si distingue anche come consulente per Les Ombres al Museo del Quai Branly – Jacques Chirac, e a Doha con il ristorante IDAM nel Museo di Arte Islamica, esplorando la fusione tra modernità, classicismo e influenze arabe nel design di Phillipe Starck.
“Come nelle belle arti il progresso dell’umanità, dalla barbarie alla civiltà, è segnato da una successione graduale di trionfi sulle rozze materialità della natura, così nell’arte culinaria il progresso è graduale dai modi più primitivi e più semplici a quelli più moderni. Più complicato e raffinato”, Isabella Mary Beeton (giornalista e scrittrice 1836-1865)
Donatella Zucca
Giornalista e scenografa