ARTISTI OGGI
Segni e sogni di Lorenzo Marini
Lettere come forme di pensieri inespressi, sospesi nell’aria che non atterrano in parole. Type, uniti dalla legge del caso, che aspirano a diventare frammenti di eternità in un mondo che ama la libertà di uno spazio sospeso nel tempo. Segni che danno vita a un linguaggio che mira a comunicare direttamente al cuore. Di segni e di sogniè una mostra fantasmagorica ma coerente, perché un’idea si può sviluppare in più modi prima di esaurire la carica. E la filosofia poetica di Lorenzo Marini sta a dimostrarlo
Luca Beatrice
In un recente articolo Umberto Galimberti, interrogandosi sulla nostra attuale capacità di elaborare un pensiero complesso, sostiene che il metro di misurazione è nel numero di parole che possediamo. Rispetto alla comunicazione contemporanea, il filosofo afferma: “siamo tornati ai geroglifici perché ci mancano le parole. Ricordo che nel 1976 un sondaggio aveva stabilito che un ginnasiale conosceva 1.600 parole. Ripetuto vent’anni dopo, il sondaggio constatava che un ginnasiale ne conosceva 640. Oggi penso che ne conosca 300 o giù di lì… la povertà del linguaggio denota la povertà di pensiero, perché il linguaggio, come giustamente osserva Heidegger, non è uno strumento per esprimere i nostri pensieri, dal momento che non possiamo pensare qualcosa se non disponiamo della parola corrispondente”.
In questo quadro indubbiamente sconfortante non si tiene però conto di un fattore.In buona parte degli alfabeti di origine classica noi riconosciamo i segni a prescindere dai significati. Le lettere, vocali e consonanti, combinate tra loro solo successivamente daranno luogo a suoni, molto dopo a significati. Prima sono immagini convenzionali, che non si discostano poi troppo dagli emoticon utilizzati oggi nella comunicazione di massa attraverso gli smartphone. Per insegnare ai bambini di prima elementare a leggere è necessario spiegare loro come si scrivono le lettere: quando la mano del piccolo è libera, priva dei meccanismi razionali, non c’è ancora un segno ma un disegno, che progressivamente spersonalizza per entrare in una convenzione. Perde la libertà per essere riconosciuto, ma quando la creatività non è ancora del tutto ingabbiata, il metodo sta nell’accostare una lettera a un’immagine: A come arancia, B come Balena, C come casa ecc.. E fino a quel momento il piccolo scolaro pensa e immagina ciò che vuole. Le lettere dell’alfabeto classico sono più o meno le stesse in ogni linguaggio, i suoni possono differenziarsi, le parole invece completamente diverse da lingua a lingua, e di conseguenza il loro significato. Questo ragionamento, basilare in discipline quali la semiologia (andava di moda quando ero studente, ora molto meno) o la grafica (una questione di pesi e misure oltre che di senso), non è affatto estraneo all’arte. Regole e convenzioni sono indispensabili per formare un linguaggio comprensibile: lo spiegò molto bene Joseph Kosuth in One and Three Chairs, opera manifesto del concettuale realizzata nel 1965. Di fronte a noi l’oggetto sedia che chiunque riconosce, sia che parli in italiano o cinese. A sinistra la rappresentazione fotografica bidimensionale del medesimo oggetto, ugualmente comprensibile perché l’immagine è perfettamente realistica, dunque non stilizzata né interpretata. Dall’altro lato la definizione tratta dal dizionario inglese. Chair è l’insieme di cinque lettere che indica sì un concetto preciso, però ciascuno di noi può intenderlo in modo diverso, una normalissima sedia o una Ghost di Philip Starck. Questione di stile, gusto, abitudine. Per i pochi che non sanno l’inglese e non hanno un traduttore sottomano le cinque lettere che formano chairnon rimandano invece ad alcun significato, sono puri segni e non aggiungono altro.
Si direbbe dunque che i linguaggi scelgano per noi. E se invece fossimo liberi di creare combinazioni, accostamenti, contrasti spinti non dall’esperienza logica ma dal puro gusto, fluttuando tra lettere che sono prima di tutto immagini? Per provare questa sensazione di libertà entriamo (il termine corretto è proprio questo) in Ryantype,l’installazione di Lorenzo Marini che apre il percorso della mostra a Santa Maria della Scala in Siena. 7.000 lettere serigrafate su piccoli riquadri in plexiglas e appese a fili che pendono dal soffitto al pavimento, in un gioco di trasparenze e colori. Con malcelato orgoglio Lorenzo racconta di avere inventato e disegnato circa 200 logotipi originali che si ripetono più volte, casualmente esplodono nello spazio e non sempre rivelano un accostamento immediato come lo suggerisce la logica. L’opera, oltre a essere davvero molto bella e a provocare un senso tra meraviglia e stordimento a chi le si accosta, è senza dubbio un omaggio all’Alfabeto di Erté, che in epoca Art Decò disegnò 26 lettere formato cartolina che riprendevano principalmente le forme sinuose del corpo femminile. Un’intuizione che Lorenzo Marini aveva già affrontato in un lavoro di alcuni anni fa, dove mise insieme performance, fotografia e pittura. Ciascuno ha i propri maestri e Marini appalesa i propri debiti, Memphis oltre a Erté, il design colorato degli anni ’80 di Sottsass, Mendini, De Lucchi e gli altri protagonisti di quella magnifica avventura italiana. Ryantype rivela una precisa concezione del mondo e una dichiarazione di poetica su cui si regge questo secondo tempo della sua vita artistica. Marini è un inventore di segni, simboli, logotipi, claim per la pubblicità. Lavora dunque per le aziende e la sua creatività è messa al servizio del commercio. Chi disegna marchi “deve psicanalizzare l’azienda, il prodotto. Ma avere poi anche una visione soprasensibile della sua anima… un marchio può segnare, accontentarsi di definire una proprietà, rimarcare… perché il marchio deve indicare al prodotto anche una via per diventare migliore”: è Marini che analizza con lucidità il suo prodotto.
Ora, Lorenzo Marini è anche un artista. Intendiamoci però, non si tratta di uno dei numerosi talenti che, avendo avuto molta fortuna nel loro mestiere, suppongono di essere capaci in qualsiasi cosa, fortunati re Mida che trasformano tutto in oro. Per Lorenzo l’arte non è una “dimanche de la vie”, ma un’espressione parallela e congruente al proprio essere. La sua vocazione, piuttosto, c’entra di più con “le violon d’Ingres”, termine con cui i francesi intendono sia le pratiche trasversali di personalità geniali, sia le passioni e le ossessioni meno conosciute (l’idea di radunare alcuni personaggi davvero stravaganti come Beckett, Artaud, Fellini, Magritte, Carlo Levi, Pasolini, Patti Smith, David Lynch e tanti altri venne al compianto Christian Boltanski per la mostra a Villa Medici, Roma, terminata nel febbraio 2019). Fosse ancora tra noi, la poetica di Lorenzo Marini piacerebbe di certo a Bruno Munari, funambolo a 360 gradi cui il nostro si ispira. Entriamo però nella seconda stanza e troviamo un monolite nero che proietta le lettere sullo sfondo. Grandi, piccole, si avvicinano, si allontanano. Per circa un minuto siamo soli a osservarle, ma basta ruotare il capo per accorgerci che dietro il totem c’è un altro visitatore, disturbato forse dalla nostra presenza. Uno scimmione seduto e concentrato, il primate di 2001. Odissea nello spazio, il capolavoro di Stanley Kubrick che nel 1968 anticipò di un anno lo sbarco sulla luna. Prima di calcare la propria orma sul satellite, la nostra specie girovagò a lungo nell’orbita terrestre e una delle principali preoccupazioni fu quella di lasciare nello spazio tracce della nostra civiltà. Ci fosse stato magari qualcuno pronto a raccogliere le informazioni, avremmo voluto restituire una buona impressione di noi, evitando di raccontare che avevamo causato due guerre mondiali, efferate dittature, conflitti civili e che “i russi e gli americani” continuavano a darsele a colpi di diplomazia mentre ai più giovani tutto questo non piaceva. Ancora una volta Lorenzo non manda messaggi ma segni, toccherà a qualcun altro unire gli elementi e decidere cosa dire. Questo, in sintesi, Monotype.
Di segni e di sogni è una mostra fantasmagorica ma coerente, perché un’idea si può sviluppare in più modi prima di esaurirne la carica. Chiameremo Writetype un’opera relazionale esattamente come Squaretype realizzata a piazza del Campo nei giorni dell’inaugurazione, per la gigantesca tastiera scomposta dove le lettere, sulle quali ci possiamo sedere, abbracciarle, utilizzarle per un selfie, sono poste in disordine, non seguono alcuna logica, né l’alfabeto né appunto una tastiera simile a quella su cui sto scrivendo, ad eccezione dell’ultimo bottone in alto a destra, accensione o spegnimento, ancora una volta decidi tu e fai cosa vuoi, io (io Lorenzo, mi sono sostituito per un momento) ho inventato tutto questo solo per farti divertire e stare bene.Cosa sarebbe l’arte, in fondo, senza quell’effetto misto tra Luna Park e castello delle streghe dove l’immagine riflessa si deforma e rivela altro da sé? Chi è la più bella del reame? chiedeva insistentemente la regina cattiva allo spirito dello specchio (a volte una bugia fa meno male della verità e comunque preferisco la misteriosa maliarda vestita in simil Gucci piuttosto che una contadinella acqua e sapone dal sapore irrimediabilmente campestre). Mirrorypeè la stanza delle meraviglie che conclude il percorso site-specific di Lorenzo all’interno di Santa Maria della Scala, uno spazio che si moltiplica attraverso 26 specchi per altrettante lettere. Quando si diceva coerenza… La mostra non è finita, anzi. Da oggi a ieri Marini ci spiega come è arrivato fin qui, in un percorso che dura da una decina d’anni, cominciato con la pittura e che in un momento non lontano ha trovato le possibili risposte al rischio di schizofrenia. Questo è il bello, stiamo parlando della stessa persona, Lorenzo artista e Marini pubblicitario. L’io e il suo doppio. Ama il mestiere che hai imparato e contentane. Passa il resto della tua vita come chi ha affidato con tutta l’anima agli dèi le proprie cose, senza farti mai tiranno né schiavo di nessuno, così diceva Marco Aurelio o almeno sembra.
