ARTE E CULTURA GIAPPONESE
Il linguaggio mutevole e profondo del paese del Sol Levante
Dalla poesia Haiku al Teatro Nō, dallo scintoismo alla cultura Zen, il percorso artistico culturale del Giappone è intriso di spiritualità e introspezione per la cura dell’anima
Beatrice Laurora
Uno dei primi europei, se non il primo, a dare notizie dell’esistenza del Giappone è stato l’italiano Marco Polo verso la fine del XIII secolo. Nel Milione infatti il viaggiatore veneziano descrive il cosiddetto Zipangu, termine utilizzato per la prima volta in assoluto dopo il suo viaggio in Asia, come un Paese popolato di genti di bella maniera e dalla carnagione chiara, pieno di ricchezze e inaccessibile agli stranieri. E se l’esistenza di palazzi ricoperti d’oro era probabilmente una diceria, l’isolamento dei paesi del Sol Levante era tutt’altro che immaginario. I contatti tra il Giappone e il resto del mondo resteranno infatti abbastanza limitati fino agli ultimi decenni del XIX secolo confermando l’immagine di una terra lontana e misteriosa. Forse nel tentativo di colmare questa distanza, nei circa centocinquant’anni di apertura del Giappone verso l’Occidente, sono giunte innumerevoli informazioni sulla sua affascinante cultura.Silenziosamente il Giappone è penetrato nelle nostre vite, ma al contrario di altri luoghi, è rimasto un universo enigmatico e per certi lati impenetrabile.
SHINTO, LA VIA DEGLI DEI
Il VI secolo segnò l’inizio di strette relazioni fra l’arcipelago giapponese, la Cina e la Corea, dimostrando una propensione ad assimilare idee e istituzioni straniere per poi adattarle alle esigenze autoctone. Uno dei risultati più duraturi fu l’introduzione del buddhismo. Il pensiero buddhista si rivelò una formidabile fonte di ispirazione artistica che a sua volta fu influenzata dall’incontro con la religione autoctona dello shintoismo.Lo shintoismo è antico quanto il Giappone stesso; letteralmente significa la via degli dèi e nasce come risposta ai bisogni di una cultura agricola che riteneva i fenomeni naturali come le rocce, i fiumi, gli alberi, quali manifestazioni concrete dei cosiddetti kami, essenze divine che permeano il cosmo in un’infinità di varietà di forme. Il culto del kami non riguarda solo lo spazio divino ma anche la residenza delle divinità: si tratta di una struttura aperta, di legno grezzo, con un tetto in paglia. Il santuario è posto al confine tra lo spazio coltivato e quello selvatico.
“Il culto del kami
non riguarda solo lo spazio divino
ma anche la residenza
delle divinità
Un tipico santuario shintoista è preceduto di norma da un torii, struttura a portale che protegge e delimita il luogo sacro; a poca distanza ci sarà una fonte di acqua corrente presso la quale svolgere i rituali di purificazione necessari prima della preghiera. I Kami trovano nei numerosi animali raffigurati nei templi i loro servitori o messaggeri. Esempio classico la volpe, messaggera della divinità Inari, spesso confusa con quest’ultima da molti che pensano che Inari sia una volpe: la volpe ne è solo la messaggera. Altro animale centrale nel culto Shinto è il cavallo che porta in processione il Kami di riferimento.
IL PERIODO DI NARA, LO SVILUPPO DELL’ARTE BUDDISTA
Il periodo tra il VII e il IX secolo vede l’arte giapponese che si sviluppa principalmente nella zona di Nara. Fioriscono la pittura e la scultura, anche monumentale, su soggetti buddhisti. Il periodo di Nara è caratterizzato da due eventi politicamente rilevanti: il trasferimento della capitale a Nara e, ottantaquattro anni dopo, dall’ulteriore spostamento all’odierna Kyoto. Con la fondazione di Nara l’architettura ebbe un grande incremento: quella civile si ispirò ai modelli cinesi di edifici residenziali, mentre quella religiosa buddhistica adattò le influenze cinesi alla tradizione architettonica già stabilita precedentemente. Prese piede il buddhismo come religione di Stato che esercitò un’influenza duratura sulle arti, la letteratura, l’architettura e le politiche di governo. Di buddhismo ne esistono diverse varianti, tutte accumunate da una ricerca spirituale volta al superamento della sofferenza terrena. Per raggiungere questo obiettivo alcune scuole, come il famoso buddhismo zen, privilegiano la meditazione, altre preferiscono la recitazione dei sutra. All’ingresso di un tempio buddhista non troverete un torii ma un più articolato portale architettonico. Inoltre, nei templi maggiori, ci saranno molte altre strutture tra cui pagode, piccoli cimiteri, giardini, templi minori.
IL PERIODO HEIAN, L’EVOLUZIONE DELL’ARTE FIGURATIVA E DELLA FILOSOFIA ZEN
Il successivo periodo Heian tra l’VIII e il XII secolo, libero dallo schiacciante predominio dei modelli artistici cinesi, vide l’evoluzione della cultura giapponese, in particolare la letteratura e le arti visive, secondo linee indipendenti. Il periodo Heian può essere suddiviso in quattro periodi politici. Così, mentre a volte veniva visto nostalgicamente come una serie ininterrotta di anni felici durante i quali l’estetismo cortese produsse il corpo classico della letteratura e dell’arte giapponese, il periodo Heian fu in realtà caratterizzato da scontri politici scatenati dai tentativi imperiali di centralizzare il governo. La letteratura e l’arte del periodo erano quindi spesso intrise di sfumature di tristezza, malinconia e rimpianto.
Wabi-Sabi: l’imperfezione è una forma di libertà Riconducibile alla filosofia zen, lo wabi-sabi è uno dei principi fondamentali dell’estetica giapponese. Wabi-Sabi è la bellezza delle cose imperfette, temporanee, non finite. È la bellezza delle cose umili e modeste. È la bellezza delle cose insolite. Questa visione esalta la bellezza del “niente è eterno”. Nonostante quindi l’ineluttabilità di tutte le cose, vi è una bellezza profonda nella loro impermanenza, nel fatto che non rimarranno così come sono per sempre. I giapponesi stessi formulano affermazioni nebulose non appena viene posta loro la domanda su che cosa venga inteso esattamente con le due parole. La nebulosità appartiene al wabi-sabi stesso, elogio dell’imperfezione, dell’inafferrabilità e della decadenza naturale. Incarnano la bellezza del wabi-sabi un fiore che appassisce dopo pochissimi giorni, per eccellenza il fenomeno dell’hanami assieme a quello della fioritura delle foglie rosse, l’arte del tè, la creazione di un vaso nuovo che nasce da una crepa o la poesia haiku.
“Wabi-Sabi è la bellezza delle cose imperfette,
temporanee, non finite.
È la bellezza delle cose umili e modeste.
È la bellezza delle cose insolite
Con grande sforzo e con vaga attinenza, i due caratteri giapponesi possono essere tradotti con l’espressione “bellezza triste”; ma va evidenziato che è soltanto dal XIV secolo che i due caratteri sono stati riconosciuti con accezione più melodica e positiva, lasciandosi alle spalle il connubio tra solitudine e disagio – wabi – in stretto rapporto con scarno e freddo -sabi-. Per noi occidentali tutto passa per la via dell’accettazione. In Oriente, nello specifico in Giappone, l’accettazione è il presupposto, un processo che non avviene in quanto si parte dal livello successivo. Una creazione che nasce imperfetta non viene posta sotto l’analisi attenta dell’accettazione, poiché c’è, ed è quindi da apprezzare.
“In Oriente, nello specifico in Giappone,
l’accettazione è il presupposto,
un processo che non avviene
in quanto si parte dal livello successivo
I difetti ne aumentano il valore, senza doverli sottoporre alla razionalizzazione. Ci sono, di conseguenza sono accettati perché esistono e sono pregni di valore.Sono speciali, diremmo noi.
Kintsukuroi: l’arte giapponese di abbracciare la bellezza delle cicatrici La cultura orientale differisce molto da quella occidentale, sotto diversi aspetti. In Occidente c’è la tendenza a gettare via gli oggetti quando si rompono oppure si cerca di ripararli senza lasciare tracce visibili del danno; infatti generalmente quando si rompe un oggetto per ripararlo usiamo la colla trasparente, in modo da nascondere le linee di rottura. Per gli occidentali la rottura, le difficoltà e le cicatrici spesso hanno un significato negativo, legato al dolore, alla vergogna, al senso di colpa e al fallimento. Facciamo fatica a considerare che i momenti di crisi e di dolore possano costituire nuove risorse e offrire nuove opportunità di cambiamento. Il Kintsukuroi non è solo una tecnica di restauro, ma ha un forte valore simbolico: è l’arte di ricomporre la vita. Rappresenta la metafora delle fratture, delle crisi e dei cambiamenti che l’individuo può trovarsi ad affrontare. L’idea alla base è che dall’imperfezione e da una ferita possa nascere qualcosa di migliore: raccolti i cocci, si ricompongono per dare loro una forma nuova.
“Il Kintsukuroi non è solo
una tecnica di restauro,
ma ha un forte valore simbolico:
è l’arte di ricomporre la vita.
La particolarità di questa pratica risiede nel fatto che il vaso non viene riparato nascondendo le crepe, ma anzi queste vengono sottolineate attraverso l’oro; attraverso la valorizzazione della frattura, il vaso rotto ora ha una nuova storia. Il Kintsukuroi è spesso associato alla resilienza, la capacità di rialzarsi sempre dopo una caduta.Non possiamo cancellare ciò che è stato, piangere non riporterà le cose a com’erano prima. Se però raccogliamo i cocci e ci rimbocchiamo le maniche, potremo riuscire a ripararla; ma questo non sarà mai possibile se prima non accettiamo ciò che è stato.
Nel libro L’arte giapponese di curare le ferite dell’anima di Tomas Navarro, l’autore, con gentilezza, ci insegna ad applicare l’arte del kintsugi alle nostre vite, fornendoci tutti gli strumenti per diventare maestri nella cura delle nostre ferite: una vera e propria guida per imparare a trasformare le avversità in opportunità.
Haiku: il valore del non detto Gli haiku sono componimenti poetici molto brevi ed evocativi, sprovvisti di titolo, che non descrivono precisamente una situazione o un evento; piuttosto, hanno l’obiettivo di evocare nel lettore le sensazioni che derivano da un’immagine. Solitamente formati da 17 sillabe organizzate in tre versi, gli haiku classici sono caratterizzati da espressioni e riferimenti stagionali. I principali sentimenti che possono ispirare gli scrittori di haiku sono la solitudine (wabi), lo scorrere inesorabile del tempo (sabi), il mistero (yugen), la delicatezza (shiori), la leggerezza (karumi) e la nostalgia (mono no aware). Le scene descritte, concise e fugaci, colgono l’attimo, catturano e trasmettono l’essenza di rappresentazioni effimere ma, allo stesso tempo, intense e ricche di suggestioni. Gli haiku originariamente costituivano la prima strofa di un renga o “poesia a catena”, una poesia scritta a più mani in cui ogni poeta che vi partecipa prosegue la composizione, completando i versi precedenti. Dietro l’espressione letteraria dell’haiku vi è la filosofia per cui questo tipo di poesia rispecchia la condizione umana che, per mantenersi, ha bisogno di rinnovarsi e innovarsi. Il rinnovamento è espresso dalla riproduzione dei cicli vitali. Di qui l’elemento, spesso ripreso, delle stagioni e del loro alternarsi. L’innovazione, invece, è la capacità di far fronte agli eventi avversi dell’ambiente circostante, trasformandoli in qualcosa di positivo. La composizione di un haiku richiede un vero e proprio processo che parte da un evento casuale, sconvolgente. Tale evento dovrà essere elaborato con il passare del tempo e solo in quel momento, l’autore avrà la giusta consapevolezza per dare vita al suo haiku, in poche, ma intrise di senso, parole.
Arte figurativa e pittura zen Nell’ambito della pittura Zen coesistono svariati tipi di immagini che vanno da quelle religiose buddhiste a quelle laiche come i paesaggi, le caricature o i ritratti. Questo è il caso dei chinsō, ritratti di grandi maestri e di fondatori che venivano dati a un allievo come simbolo dei suoi progressi in onore del maestro. Di solito i dipinti erano eseguiti in inchiostro e colori su carta o seta utilizzando un supporto in forma di rotolo destinato a essere appeso, detto kakemono. Il kakemono si apre in verticale ed è concepito come decorazione murale da interno: essendo collegato a periodi specifici dell’anno o occasioni particolari, è esposto solo temporaneamente e poi riposto, accuratamente arrotolato, in apposite scatole, oppure sostituito da un altro kakemono più appropriato alla nuova data; nei monasteri venivano collocati in apposite sale, dei ritratti dove erano fatti oggetto di offerte rituali e attività devozionali. Il maestro è sempre seduto su un alto scranno, nella posizione del loto, in mano il bastone o lo scacciamosche dell’iconografia classica o le mani nella posa meditativa.
IL PERIODO MUROMACHI E L’AFFERMAZIONE DELLA PITTURA A INCHIOSTRO
Il periodo Muromachi, successivo a quello Heian, vide il forte sviluppo della pittura monocroma a inchiostro; nata su modelli cinesi non era tecnicamente la novità ma lo erano i soggetti e le finalità: ogni dipinto costituiva un’esperienza Zen che conduceva verso la conoscenza individuale. Come in Cina dove questo tipo di pittura era del tutto personale ed era nata tra pittori non professionisti, così in Giappone divenne l’espressione dei sentimenti più intimi. I pittori del periodo Muromachi studiavano attentamente le grandi collezioni di pittura cinese classificando con rigore tutte le tecniche pittoriche e individuando esempi ineguagliabili. Non va dimenticato, tuttavia, che in Giappone, nonostante l’enfasi sull’improvvisazione e la spontaneità, l’ispirazione non proveniva affatto dalla natura come invece accadeva in Cina, poiché la pittura a inchiostro giapponese si ispirava esclusivamente a modelli cinesi prima, e a maestri giapponesi poi.
Maschere e spiriti del teatro Nō Sviluppatosi a partire dal XIV secolo, il Nō è una delle più antiche forme di rappresentazioni teatrali esistenti. I drammi del teatro Nō raccontano storie a sfondo soprannaturale derivate da leggende o eventi storici. Accompagnati da musica e canti che pongono lo spettatore in una sorta di dimensione sospesa, misteriosa e allusiva, gli attori si muovono su un semplice palcoscenico con passi misurati utilizzando elaborati costumi, maschere e gesti stilizzati per esprimere circostanze ed emozioni. Elemento distintivo del teatro Nō sono le raffinate maschere indossate dagli attori. Esse rappresentano i tipici personaggi in personati durante lo spettacolo come l’Uomo, la Donna, l’Anziano, il Demone o il Fantasma. Queste maschere, dette Nohmen sono così sofisticate che basta una piccola inclinazione per cambiare la percezione degli spettatori e comunicare un’espressione differente. Sul palco del teatro recitano pochissimi attori, tutti uomini. L’attore principale è detto Shite e in genere è l’unico, salvo rare eccezioni, a indossarne una. Tuttavia, a volte anche lo Tsure, l’accompagnatore dello Shite, porta la maschera.
Il palco del teatro L’intreccio di danza, musica, attualità e trama non è casuale. L’impressione, anzi, è di assistere a una rappresentazione fluida: ogni elemento è imprescindibile per la comprensione dello spettacolo. Il ritmo è tradizionalmente lento e cantilenate: sconcertante per uno spettatore occidentale. L’apparenza è quella di una energia statica: gli attori infatti sono quasi immobili sul palco, o si muovono con gesti ampi e lenti. Sembra che la ricerca si muova verso un profondo scavo dell’interiorità: un corpo immobile, ma colorato e brillante. Assistere a un evento di Teatro Nō è una terapia per l’anima. Un’esperienza mistica, difficile da verbalizzare ma molto da percepire; un flusso di emozioni continuo, uno scambio di energie ineguagliabile.
Il teatro Kabuki fra danza, canto e tecnica Quando ha avuto origine, il Kabuki era interpretato solo da donne ed era popolare soprattutto tra la gente comune; ad oggi è eseguito solo da uomini. Sostanzialmente consisteva nel portare sul palco passioni e drammi che prima erano relegati ai retroscena della vita privata. Le prime scene di danza del Kabuki furono dipinte su rotoli e paraventi, mentre le rappresentazioni per mezzo della stampa arrivarono più tardi. Gli ammiratori più affezionati mostravano per gli attori Kabuki un entusiasmo tale da raggiungere quasi livelli di devozione. I quartieri di piacere e i teatri erano i luoghi più significativi per la creazione della cultura del periodo e, anche se opportunatamente circoscritti, rimanevano comunque un mondo indipendente che dava origine a una sua estetica originale. Le mode venivano lanciate dagli attori e dalle cortigiane. Inizialmente nelle stampe gli attori venivano rappresentati a figura intera, uno o al massimo due, su grande formato. Nello stadio iniziale delle rappresentazioni gli attori non dovevano raffigurare in modo veritiero le caratteristiche fisiche e la fisionomia degli interpreti ritratti.
Le varie rappresentazioni artistiche si sono evolute negli anni e hanno assunto aspetti e significati diversi in linea con i cambiamenti della società, l’accrescimento della conoscenza e i fatti storici ma la forma mentis e il particolare modo di concepire l’esistenza e di vedere il mondo non sono sostanzialmente mutati e impregnano tuttora la cultura e l’arte giapponese. Nonostante l’esordio isolato e autoreferenziale, il Giappone ha immediatamente conquistato cuore e menti d’Europa: sangue e poesia, modernità e legge millenaria rappresentano, agli occhi di noi occidentali la prima e la più vistosa delle folgoranti contraddizioni d’un arcipelago affascinante e inafferrabile, che ha fatto della sua orgogliosa inaccessibilità la sua ricchezza più grande. Chi torna da una viaggio in Giappone parla quasi sempre della propria esperienza come qualcosa di unico e quasi irreale, sicuramente indelebile.
Beatrice Laurora
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