INTERVISTA
GABRIELE LAVIA La voce rigorosa del teatro italiano
Gabriele Lavia, in questa intervista ad ArteCultura Magazine, racconta la sua visione del teatro come sintesi perfetta fra rigore, disciplina e innovazione nella tradizione. Attraverso una vita dedicata al palcoscenico, Lavia condivide il suo metodo severo e profondo, in cui nulla è lasciato al caso, e ogni elemento scenico diventa verità autentica e universale.
Il teatro italiano oggi ha tanti volti, ma uno incarna la sintesi perfetta tra tradizione e innovazione: Gabriele Lavia. Con il suo rigore, la sua passione e il metodo inconfondibile, ha formato generazioni di attori e registi, diventando un punto di riferimento assoluto. Chiunque faccia teatro ha imparato o ha ancora molto da imparare da lui.
Maestro Lavia, cosa significa per lei innovare nel teatro?
“Innovare non significa recitare male, come purtroppo qualcuno crede. C’è questa assurda idea che si possa innovare distruggendo la tradizione, facendo un teatro raffazzonato, senza rigore. Ma la verità è un’altra: innovare significa partire da ciò che è solido, come il sugo della nonna, che era imbattibile. Da lì si può costruire, ma senza perdere il senso profondo della tradizione e della qualità. Il teatro è disciplina, studio, rigore. E tutti quelli che fanno teatro, oggi e in passato, hanno qualcosa da imparare da me o hanno già imparato”.
Lei ha sempre fatto un teatro classico ma innovativo. Cosa significa esattamente?
“Significa restare fedeli alla profondità del testo e, al contempo, trovare una forma espressiva che parli agli spettatori di oggi. Il teatro è un’arte difficile, e lo si vede ogni volta che si assiste a uno spettacolo: chi non ha padronanza della scena crede di poter supplire con stratagemmi tecnici. Per esempio, il microfono in teatro è una bestemmia: il teatro non è fatto per il microfono. Se proprio deve essere usato, deve essere con un’accortezza raffinata, non grezza e invadente. Ma questo è solo un aspetto. Il teatro è un linguaggio universale, e un grande regista, un grande attore, deve saper parlare con una profondità che pochi riescono a raggiungere. Io ho sempre lavorato in questa direzione, e chi ha avuto modo di lavorare con me ha compreso l’importanza della disciplina e della dedizione”.
Ha sempre avuto un metodo di lavoro estremamente rigoroso. Come lo descriverebbe?
“Il mio metodo è il mio. In scena nulla è casuale: ogni elemento ha una spiegazione e una geometria che io conosco, anche se il pubblico non la percepisce in modo consapevole. Tuttavia, la avverte. C’è un’armonia nascosta che emerge, un ordine segreto che regola lo spazio scenico. Questo rigore deriva da una grammatica della messa in scena quasi scientifica, che permette all’attore di muoversi con precisione e di creare un universo teatrale coerente. Il teatro è verità, ma è anche una macchina perfetta, in cui ogni dettaglio contribuisce alla creazione di un senso più profondo. Gli attori che hanno lavorato con me sanno cosa significa questo rigore e, anche quando lo contestano, ne riconoscono l’importanza. Nessun grande attore, nessun grande regista, può prescindere dalla disciplina”.
Lei ha due figli attori. Come vede il loro percorso?
“Lorenzo è un bravo attore, ma Lucia è un genio, né più né meno. Ha una padronanza del palco che lascia ammutoliti. Non si tratta solo di talento, ma di una capacità di stare in scena, di dominare lo spazio con una naturalezza incredibile. Il teatro è qualcosa che si ha dentro, e lei lo ha nel sangue. Chiunque abbia visto Lucia in scena sa che possiede un dono raro, un’intelligenza teatrale fuori dal comune. Non basta recitare bene: bisogna saper abitare la scena, darle vita, renderla reale e, al tempo stesso, più vera della realtà stessa. Questo è ciò che fa di un attore un grande attore”.
Il teatro italiano è cambiato molto negli ultimi anni. Cosa ne pensa?
“Purtroppo, molti non capiscono che recitare è difficilissimo. E si vede. Ci sono attori che non hanno recuperato la disciplina, il rigore, la dedizione necessari. Vedo colleghi culturalmente modesti, che si abbassano a compromessi che un tempo sarebbero stati impensabili. Il microfono, per esempio, uccide il teatro, ed è uno strumento della mediocrità. Se un attore sa recitare, non ha bisogno di amplificazione. Chi ha studiato con me sa che la voce non è solo un suono: è un’energia, un’emozione, un’architettura dell’aria che si propaga e avvolge il pubblico. Se non sai gestire la tua voce, non sei un attore. Questo è il problema del teatro di oggi: si crede che basti essere presenti, dire le battute, ma recitare è molto di più. E chiunque abbia studiato teatro lo sa bene”.

In teatro “Ogni elemento ha una spiegazione e una geometria che io conosco, anche se il pubblico non la percepisce in modo consapevole. Tuttavia, la avverte. C’è un’armonia nascosta che emerge, un ordine segreto che regola lo spazio scenico”, dice Gabriele Lavia.
In questi giorni è in scena “Lungo viaggio verso la notte” di Eugene O’Neill con Federica Di Martino. Che tipo di allestimento ha scelto?
“Ho pensato alla casa della famiglia Tyrone come a una gabbia, una gabbia malandata. Ogni oggetto in scena è posizionato con una precisione assoluta: il raggio di luce sulla tavola, il lampadario, le librerie. Nulla è lasciato al caso. La scena, in fondo, si potrebbe fare con niente, ma la sua struttura invisibile è fondamentale. Questo dramma è un precipizio nell’amarezza di un fallimento senza riscatto, e la scenografia deve accompagnare questa discesa. Il teatro non è solo recitazione, è costruzione di un mondo. E in questo mestiere non si smette mai di imparare”.
Come sceglie i testi da portare in scena?
“I testi li scelgo dalla realtà. Il teatro deve parlare della vita vera, e la realtà è già teatro. Ma bisogna saperla guardare con gli occhi giusti. I grandi testi sono quelli che riescono a racchiudere in poche parole un’intera esistenza”.
Sta lavorando a un nuovo spettacolo?
“Sì, ma non chiedermi il titolo. Come dicono i giapponesi, se lo riveli troppo presto, passa lo spirito del dispetto e finisce tutto in malora. Quello che posso dire è che sarà un lavoro intenso, di grande profondità. Il teatro non è intrattenimento: è arte, è vita, è ricerca. E tutti quelli che fanno teatro dovrebbero ricordarselo sempre”.
Il teatro deve parlare della vita vera, e la realtà è già teatro. Ma bisogna saperla guardare con gli occhi giusti. I grandi testi sono quelli che riescono a racchiudere in poche parole un’intera esistenza”.

In “Lungo viaggio verso la notte” Gabriele Lavia e Federica Di Martino si immergono nella dolorosa intimità della famiglia Tyrone, protagonista del più autobiografico dramma di Eugene O’Neill (Premio Pulitzer nel 1957).

Giornalista