POP ART
ANDY WARHOL, l’artista che esaltò il mito della società dell’apparenza
Con una mostra consacrata alla pop art e alla cultura di massa del Novecento, Il Kyocera Museum of Art di Kyoto celebra il principale esponente del movimento artistico, Andy Warhol, che per primo seppe cogliere ed esaltare il mito della società moderna attraverso l’uso della tecnologia, dei media e dell’immagine.
Il Kyocera Museum of Art di Kyoto inaugura la stagione con una mostra consacrata alla pop art e alla cultura di massa del Novecento, celebrandone il padre e principale esponente Andy Warhol, l’eccentrico, l’avanguardista. Con le sue 200 opere, tra quadri, fotografie, film e materiali d’archivio prestati dal “Andy Warhol museum” di Pittsburgh, USA, questa retrospettiva vanta di essere la più̀ grande esibizione di Andy Warhol mai vista a Kyoto.
Nato e cresciuto a Pittsburgh, Pennsylvania, il giovane Andrew Warhola, ancora molto lontano dall’essere il sofisticato artista che tutti conosciamo e proveniente da una famiglia di immigrati, nel 1949 si trasferisce a New York in cerca di fama. Dopo aver adottato una nuova personalità̀, Andy Warhol diventa una figura fissa tra i creativi e l’élite queer, lavorando per la moda e la pubblicità̀. Il suo marchio di fabbrica, la “tecnica della bottiglia” ovvero un semplice monotipo ripetuto molteplici volte che diventa la linea di lancio per clienti come Coca-cola, Glamour, Harper’s Bazaar e Cadillac.
Con I primi successi come illustratore commerciale, si procura le risorse per partire per un “viaggio intorno al mondo”. Una delle sue tappe, Kyoto. L’elegante città giapponese gli appare molto lontana da Pittsburgh e, allo stesso tempo dal glamour di New York. Tra il 1956 e il 1974, esplora la città, tornandoci una seconda volta e collezionando disegni che dipingono gli scorci più̀ conosciuti, come la pagoda del tempio di Kiyomizu-dera. Warhol si sofferma sulle visioni delle Geishe, e sulle linee sottili ed eleganti dei templi, sui monaci e la visione da cartolina, ben lontano dall’approfondire la crudità̀ della gente comune, ma rimanendo affascinato dall’eleganza della tradizione che si porterà̀ dentro anche nelle sue opere future, mostrando con questa raccolta già̀ un indirizzo più superficiale e raffinato della sua direzione artistica.
Nell’estate del 1985, Warhol riceve in regalo il primo Amiga 1000 computer e firma entusiasta il contratto con la compagnia come nuovo ambasciatore del brand. Nasce così la sua passione per i computer. Per il lancio del progetto, Warhol usa Debbie Harry – cantante leader di Blondie dove in una performance, ne crea il ritratto digitale con il software ProPaint. L’anno precedente, visitando Sean Lennon e Yoko Ono per il compleanno, Warhol scrive nei suoi diari “Ho incontrato un ragazzino che stava sistemando il computer Apple che Sean aveva ricevuto per il suo compleanno. Il Macintosh model. Gli dissi che una volta qualcuno mi chiamò molte volte per regalarmi un modello, ma io non gli risposi, o non lo chiamai, non ricordo esattamente. Il ragazzino mi guardò e mi disse “si, quell’uomo ero io. Sono Steve Jobs”. Warhol imparò ad usare Apple e quella sera e confessò nel suo diario “mi sono sentito così vecchio e al di fuori, accanto a questo ragazzino che inventò tutto questo”.
A Kyoto vengono esposte non solo una vasta raccolta di ritratti di cantanti e attori, tutti realizzati al computer, ma anche fotografie e filmati dell’artista che ci rendono partecipi a 360° dello stato emotivo che varia da una rappresentazione di un prodotto mediatico, alla raccolta di video girati nel suo studio, proiettati sul muro di una stanza, mentre una serie di cuscini in alluminio galleggiano nell’aria, riservando allo spettatore uno spazio dove può vivere le immagini in maniera interattiva.
È il 1960, in America serpeggia aria di proteste civili. La guerra in Vietnam va avanti ormai già̀ da 5 anni collezionando il malcontento cittadino e nell’inizio del 1961 il giovane presidente John F Kennedy vince le elezioni diventando il primo presidente americano più̀ giovane della storia. Nel suo breve periodo di governo (dal 1961 al 1963 data della sua morte) lui e la moglie Jackie, diventano icone mediatiche non solo grazie alla politica ma anche al carisma del giovane presidente. L’omicidio di Kennedy viene ripreso dai media a livelli incredibili, Warhol inizia una serie di ritratti di Jackie. Basandosi sulle sue foto di riviste e giornali, Warhol non solo isola la sua immagine dalle foto di gruppo, ma la ripete più e più volte ossessivamente suggerendo la solitudine della vedovanza e la sua testimonianza verso la nazione. La ripetizione continua dell’immagine offre agli spettatori la possibilità di rivivere l’incidente che influenza la storia americana.
La televisione è in quel periodo il mezzo di comunicazione di massa principale ed è in questo clima febbricitante, che Warhol mette le basi per la sua Factory – lo studio che avrebbe accolto tra il 1963 e il 1987 alcuni dei più̀ noti volti dell’epoca. Sin da bambino il quaderno dei disegni del giovane Andy raccoglie migliaia di ritratti delle sue star preferite di Hollywood. Una volta adulto inizia una serie di ritratti di celebrità quali Marilyn Monroe, Elvis Presley e Elizabeth Taylor, iniziando da quel momento a circondarsi dalle più audaci e luminose personalità della sua generazione. Collezionò un entourage personale che gli servì anche come muse temporali. Non solo star ma anche personalità diverse, particolari per i suoi video e film. Warhol divenne il leader degli artisti, tra i più celebri attori, artisti, musicisti, politici, scrittori, modelle e ricchi mecenati. La maggior parte ne approfittava per essere commemorata e resa immortale, sedendosi per gli “screen tests series” o come modella per uno dei suoi ritratti.
Warhol e la factory diventano una corsa all’oro per i personaggi più influenti, dove apparire è l’unica ragione di esistere. Nella sua collezione appaiono tutti, da Bowie a Diana Vreeland fino a Dalì che posa in un misto tra il timido e l’esibizionista davanti alla telecamera. Warhol esalta il mito di Narciso, rivelando l’effimerità̀ della condizione umana istituzionando l’adulazione eterna. Ma dove si posiziona lui? Il timido Andy, l’osservatore? Lui se ne sta in disparte, studiando ed esaltando il mito della celebrità, ma allo stesso tempo rimanendo distaccato, senza mai farne davvero parte, costruendo attorno a sé un’aura di mistero, un muro a proteggere se stesso e la sua vita privata.
“Nel futuro tutti saranno famosi almeno per 15 minuti” con questa profezia, Warhol introduce il mondo dei social media. È la ricerca della fama quello che più ci attrae, o l’idea di essere amati e celebrati almeno per 15 minuti? La ricerca di affetto a livello globale, la necessità di dire al mondo “esisto anche io” di essere capiti per quello che sappiamo fare, di sentirci gratificati, non sono altro che la base di un bisogno primario dell’essere umano che sfocia nel desiderio di fama, di riconoscimento, di sapere che contiamo qualcosa, che la nostra esistenza fa la differenza in qualche modo. È un desiderio di autodeterminazione che l’artista giustifica quasi a voler dire “Cosa c’è di male nella necessità di essere visti?” Il mondo è fatto di gente che vuole essere vista e gente che vuole nascondersi. Così Warhol lascia la libertà a chi lo circonda di poter esprimere quel desiderio di essere notato, indossando sé stesso una maschera per nascondersi.
La mostra si chiude sul tema della morte. Un tema caro all’artista che appare nella composizione di Warhol dai primi del 1960, sia metaforicamente che con immagini esplicite. Nel 1968, l’attrice Valerie Solanas irrompe nella factory e spara a Warhol, che sopravvive miracolosamente. Dopo l’incidente, la fragilità della vita diviene un tema presente nella sua arte, un tema che già era stato introdotto con la serie “morte e disastri” e che si consolida maggiormente con la realizzazione di “teschio”. Se la prima è una serie di incidenti ritagliati dai giornali e riproposti ossessivamente, la seconda una serie di dipinti con il teschio nel “Momento mori” e che non solo manifestano la costante presenza della morte come pensiero, ma che mostrano uno studio di luci e ombre sulla superficie della calotta. Warhol, infatti, esplora così anche il tema allegorico, mostrando diversi esempi di transizione dalla luce all’ombra.Pare quasi un’altra profezia, quando dopo aver esposto la sua ultima opera “L’ultima cena” a celebrare il famoso affresco di Leonardo da Vinci, nel 1987, Andy Warhol muore a causa di complicazioni mediche. Sull’ultima parete prima dell’uscita dalla mostra del Kyocera museum, una frase “non credo nella morte, perché̀ non ci sei più̀ per capire cosa succede. Non posso dire niente sulla morte perché̀ non sono pronto per morire”. Warhol non solo raccoglie il mito della società̀ moderna, ma lo esalta attraverso l’uso della tecnologia, dei media e dell’immagine mostrandosi un precursore dei tempi. Una società che Warhol, a differenza dei suoi predecessori e successori, non giudica, anzi esalta. Lascia l’essere umano sentirsi libero, senza pregiudizi, di celebrare le proprie fragilità riconoscendole necessario elemento di sopravvivenza, e fornisce un’ancora d’appoggio dove il divertimento e l’edonismo assumono l’importante ruolo di via di fuga da una realtà̀ oscura, di sofferenza e poi il nulla e la morte.
“Andy Warhol esalta il mito di Narciso, rivelando l’effimerità̀ della condizione umana. È un desiderio di autodeterminazione che l’artista giustifica quasi a voler dire “Cosa c’è di male nella necessità di essere visti?”
Silvia Lorenzi
Regista