CINEMA
LUCA VERDONE “Nei miei film indago la vita al presente”
Una passione per il cinema, quella di Luca Verdone, nata fin da giovane. E una voglia di andare oltre la semplice visione per approfondire e documentare la realtà. Così il regista si racconta in questa intervista a cuore aperto per Arte Cultura Magazine. Dove parla anche della sua sfida di fare cinema in una famiglia di professionisti del settore. E della sua volontà di sviluppare uno stile personale, incentrato sulla documentazione e l’esperienza del presente.
“Ho deciso di occuparmi di cinema da quando avevo 14 anni, ma cercavo e sentivo dentro di me qualcosa che andava al di là del semplice guardare, vedere e riportare. Sentivo la necessità di documentare, approfondire: mi è sempre piaciuta la storia che mi ha dato momenti di pienezza: una specie di lotta tra me e me per riuscire a percepire il presente, ad abitarlo invece di farmi travolgere dal futuro e da tutti gli effetti collaterali della sua brevità. Per capire poi una cosa: la condivisione è importante, ma ci si deve arrivare”. Non deve essere stata facile per un regista impegnato, come Luca Verdone, la vita da professionista, circondato come è sempre stato, da italiche glorie a cominciare da suo padre il fantastico Mario Verdone non solo critico cinematografico, ma professore di storia del cinema; essere fratello di Silvia, produttrice cinematografica, oltre che moglie di Christian De Sica. Ma soprattutto essere fratello con tre anni in meno di Carlo-cult Verdone, attore amatissimo, sì. A sua volta anche regista.
Luca cosa si prova ad avere il cinema nel DNA?
“In realtà ho deciso di entrare in questo mondo quando avevo 14 anni e il mio successo è arrivato alquanto gradualmente, frequentando gli ambienti di mio padre e conoscendo i personaggi che lui incontrava. Uno dei tanti ricordi che ho di lui è che mi portava sempre al cinema, e da qui è nata la mia grandissima passione che partiva dagli 8 mm fino ad arrivare al super8, che mi regalò mio padre per gratificare delle promozioni a scuola. Ho sempre fatto “filmetti” e riprese coi miei amici fino ai 16-17 anni quando mi sono addentrato in cose più elaborate che mandavo ai festival e lì vincevo pure. Così è nata in me questa convinzione di continuare e di coltivare questa mia voglia di sperimentare. Di pari passo con gli amici avevo fondato un gruppo teatrale, Il Cenacolo, dove portavo in scena i classici: Carlo stesso debuttò come attore in questa specie di cantina con il racconto di Gargantua e Pantagruel”.
Qualcuno l’avrà incoraggiata, immagino.
“Una persona molto importante nella mia vita è stata Franco Zeffirelli, grande amico di mio padre: quando apparve nel ’68 il suo film culto Romeo e Giulietta avevo 16 anni ed è stato subito successo mondiale. Vedendolo, rimasi incantato dalla bellezza, dalla fotografia e facevo già esperimenti con la mia macchinina da ripresa. Non credevo che un regista come lui potesse perdere tempo a darmi consigli eccezionali che hanno letteralmente cambiato il corso della mia vita, a cominciare dalla sua immensa visione di insieme, che ancora oggi fa scuola. Mi ha aiutato tantissimo, aveva in sé una qualità morale che mi faceva, diciamo, indossare come un mantello che protegge, scalda e occulta eventuali difetti. Gli sono ancora riconoscente, è stato ed è ancora un modello per me ed era alla mano, generoso: quando sfondò definitivamente come regista ebbe contro l’intellighenzia di sinistra. E nello stesso tempo venne apprezzato da tutte le correnti intellettuali soprattutto all’estero. E il suo trionfo internazionale in Italia lo tenevano nascosto. È ancora inspiegabile per me: è stato un vate, che mi ha permesso essere con lui – ma ha fatto scuola a tanti – sul set dove girammo la fase preparatoria di Fratello Sole Sorella Luna, ancora oggi un documento talmente importante che lo studiano nelle scuole di cinema e formazione”.
Ci racconti del suo lavoro di documentarista
“Dopo l’iscrizione all’università sono stato preso da una società importante negli anni 60 e 70 proprio per fare documentari. Grazie a questo impegno ho vinto diversi premi internazionali: il mio primo documentario è stato su Paolo Uccello, tutto questo si accompagnava al mio corso di laurea in Storia dell’arte: comunque lo strappo è stato quello di lasciare il mondo accademico per dedicarmi completamente al cinema senza tralasciare alcuni bei debutti nella regia lirica, dove ancora una volta ho avuto la fortuna di seguire Zeffirelli, quando faceva Falstaff a Roma. Anche e, forse, soprattutto, qui è stato un vero talento, estremamente vitale, immaginifico, formidabile con un’ambivalenza straordinaria e con un senso dello spettacolo innato. Poi, era il 1977, ho debuttato a Spoleto con L’impresario di Mozart: avevo proprio la mania di seguire un’idea e portarla in fondo. Sono stato allievo di Franco, grazie a lui non mi sono mai sentito orfano di una collocazione diventata automatica nel corso della vita, è lui che mi ha trasmesso il senso dell’appartenenza”.
Luca famose sono anche le sue irruzioni anche nella commedia
“Già quando studiavo avevo ben chiaro che avrei fatto il regista: inevitabilmente a un certo punto sono arrivato alla commedia comica come nel caso di 7 kg in 7 giorni che ha avuto un successo incredibile”.
Lo passano spesso anche in tv e i dati sono ancora strabilianti: sarà che prende di mira le cliniche per dimagrire, frequentate ieri come oggi…
“Già questo è vero e ho capito di essere più portato per la commedia. Questo film fa ridere perché oggi a parlare di chi è tormentato dai chili di troppo ci sono trasmissioni tv con doppiaggi lamentosi su canali tematici, piccole storie di redenzioni e tristi con affreschi di ambienti familiari e sociali disagiati. Rivedere questa commedia dove c’è Carlo con Renato Pozzetto significa un po’ inoltrarsi nel reame magico del politicamente scorretto, attraverso un viaggio secondo me ancora bellissimo della pochade, lo slapstick, la satira di costume e perfino, azzardo, nella grande commedia all’italiana. È un film che onora ogni singola parola di una sceneggiatura solida che ho avuto la fortuna di scrivere con personaggi del calibro di Leo Benvenuti e Piero De Bernardi , che si fa beffe della mania delle cliniche dimagranti di metà anni Ottanta, andando a scomodare quei borghesi piccoli piccoli, o meglio quelle maschere che rimandano un po’ ad Alberto Sordi. Non a caso la cifra è anche surreale, e i personaggi di contorno volutamente fumettistici a cominciare dall’anziana signora interpretata dalla Sora Lella”.
C’è qualcuno o qualcosa che rimpiange?
“Alida Valli con la quale feci La Bocca e che vinse il David di Donatello. Poi c’è stata La Meravigliosa Avventura di Antonio Franconi attraverso Massimo Ranieri che ripercorre la biografia del primo impresario circense, Franconi, appunto, che proponeva le imprese di questa mitica figura che desiderava realizzare uno spettacolo costruito con tutte le forme rappresentative fino a quel momento conosciute. E poi il film Le memorie su Giorgio Vasari: ma non si tratta di rimpianti in verità: solo che mi intenerisco leggendo le sacrosante rivendicazioni del tempo con le sue variabili, che rendono ogni momento uguale e diverso da quelli di anni, forse epoche che lo hanno preceduto”.
Cosa vede di questo momento storico?
“Vorrei che ci fosse meno conformismo e che le persone sapessero allontanarlo, dove le tematiche sono praticamente tutte uguali o, al contrario, racconta di narcisi. Vorrei che si parlasse più di spettacolo e fare affreschi della realtà: il difetto degli autori italiani è che sono sempre autoreferenziali, magari tornassero a quei registi degli anni 60-70 per cercare di affrescare quello che stiamo vivendo”
“Vorrei percepire il presente, per abitarlo invece di farmi travolgere dal futuro e da tutti gli effetti collaterali della sua brevità”
Giornalista