REPORTAGE
Viaggio in quattro tappe nell’anima e nel cuore del Giappone
Una società funzionale e, nello stesso tempo, anche poetica, attenta ai particolari, immersa nel silenzio, aperta al futuro. E molto altro ancora nel racconto di un tour nel Paese del Sol Levante che inizia da Tokyo, prosegue per Kyoto, passa da Osaka e giunge ad Hakone sulle vette del monte Fuji
La prima cosa che colpisce una volta arrivati all’aeroporto di Tokyo, è l’incredibile quantità di persone che ti indicano dove dirigerti. Mentre all’estero i turisti sembra spesso che vaghino alla ricerca di una strada, di un palazzo, di una meta o che seguino la massa, a Tokyo pare impossibile perdersi.
Mentre cammino per il labirinto umano di ogni età̀ che mi informa dove ritirare il mio documento di espatrio, con annessa valutazione di validità̀ della mia carta vaccini, mi chiedo come sia possibile impiegare così tanta gente per reggere cartelli, segnali e frecce.
È una situazione che mi si riproporrà̀ ancora tra le strade di una Tokyo semi affollata, dove gruppi giovani e anziani ti indicano dove attraversare la strada, come superare un cantiere, dove fare attenzione. Tutti questi lavoratori mi fanno pensare, come fa lo Stato a permettersi di mantenere 10 persone che fanno il lavoro di una? Superati i primi giorni di intenso Jet Lag che mi impediscono di dormire, faccio una breve ricerca online e scopro dell’esistenza di milioni di anziani che lavorano sottopagati, svolgendo mansioni nella sicurezza, controllo del traffico, pulizia di uffici e in molti altri ambiti con lavori considerati particolarmente faticosi. Il Giappone è uno dei paesi, con l’Italia, dove il tasso di anzianità̀ è tra i più̀ alti.
IL LAVORO NOBILITA L’UOMO
Grazie al buon cibo, a un livello di vita dignitoso, e al clima mite, la popolazione invecchia a dismisura, così lo Stato incoraggia il lavoro della terza età̀ che rende i veterani, non solo indipendenti per i bisogni di tutti i giorni, ma anche coinvolti nella società̀. Che questa sia una decisione a favore della crescita demografica giapponese o a sfavore, rimane una questione da valutare nei prossimi anni. Resta invece il fatto che, a livello statistico, gli abitanti over 75 ricoprono più̀ del 15% dell’intera nazione giapponese, mentre gli over 65 hanno raggiunto il record del 29% – la più̀ alta percentuale nel mondo, che potrebbe arrivare a raggiungere il 38% nel 2065.
Il numero degli over 65 che lavorano, in crescita da 18 anni consecutivi, arriva oggi a 9 milioni (il 13.5% degli impiegati) e, se si guarda al gap tra i 65 anni e i 69, ci si accorge che più del 50% delle persone in quella fascia di età ancora lavora. Miho Fujinami, professore associato alla Chiba Keizai University ed esperto sul lavoro per gli anziani spiega che in Giappone, non solo la popolazione è la più longeva del mondo (assieme, incredibile a dirlo, a quella sarda), ma che ha anche molta più̀ voglia di lavorare in tarda età rispetto all’Occidente. Che sia una conseguenza della necessità di rendersi utili o un semplice bisogno di contribuire alle spese familiari, non mi è chiaro. Quello che noto però, è l’estrema precisione e delicatezza con la quale vengono svolti tutti gli impieghi.
L’ETERNO RITORNO
Così nei miei primi giorni mi perdo tra le strade di Tokyo, un’esperienza quasi mistica, circondata da una moltitudine di persone in continuo movimento, che fluisce dentro e fuori la metropolitana, tra le strade, come un ruscello. Prima di venire in Giappone, in particolare quando tornavo in Estonia dall’Italia alla fine del periodo natalizio, mi capitava di domandarmi come fosse possibile incanalare un gran numero di persone in una città senza renderla caotica. Non avevo una risposta precisa ma ora, mentre cammino tra le vie di Tokyo, mi rendo conto che il movimento è la chiave. Il continuo fluire, costante e ordinato è quello che porta Tokyo ad essere una città totalmente funzionale e proiettata verso il futuro. Il tempo stesso sembra scorrere in maniera completamente diversa da quello a cui sono abituata. Qui pare sempre di essere in ritardo ma, allo stesso tempo, i momenti vissuti appaiono più vividi e più intensi del normale. La visione del tempo fluido che si rincorre in maniera ciclica e l’eterno ritorno sono forme che si ripropongono nella cultura anche a un livello spirituale.
Nel Giappone, infatti, coesistono due religioni, lo Scintoismo e il Buddismo. Se lo Scintoismo (la via degli Dei) è un sistema di credenze autoctono che ruota intorno alla terra, alle stagioni e al loro rapporto con gli umani, con la riconoscenza di uno spirito della natura (Kami), una visione panteista che attribuisce un’anima alla natura ricca di rituali di purificazione fatti per superare l’intossicamento della morte e della decadenza, ma che manca di un codice morale, scritture religiose e non concepisce la vita oltre la morte. A colmare queste lacune, in Giappone viene incontro il Buddismo che coesiste e diventa complementare allo Scintoismo. Così si pensava infatti che le identità̀ shintoiste e i loro Kami portassero all’illuminazione buddista. Il Buddismo, che offre un percorso spirituale portato alla trascendenza della sofferenza dovuta all’esistenza, con il suo Samsara, l’infinito ciclo della nascita, la morte e la rinascita alla quale sono soggette tutte le creature viventi, diventa uno specchio per la concezione del tempo. Mentre nella religione Cattolica e nelle religioni occidentali, siamo abituati ad una visione temporale in linea retta, in Giappone, il tempo viene percepito in maniera circolare. Una concezione che si riflette non solo nella vita di tutti i giorni, dove la ripetizione della stessa azione non è vista con negatività̀, ma, anzi, come un processo di avvicinamento al divino.
SOCIETÀ FUNZIONALE VERSO SOCIETÀ EMOTIVA
Attraversando la strada, noto l’incredibile numero di cartelli di divieto, da “non fumare” a “non mangiare per strada” ma anche a “non parlare ad alta voce”. Mi incuriosisco e vado a ricercare quali sono le norme più comuni in Giappone, così scopro che non solo è vietato fumare in strada (anche se, quando la luce del sole si abbassa e la notte prende il sopravvento, si vedono le prime sigarette accendersi) ma è di poco gusto soffiarsi il naso, mangiare e bere, telefonare sui mezzi di trasporto, parlare ad alta voce e chi più̀ ne ha più̀ ne metta. La mia mente vola veloce all’Italia e sorrido pensando a chi mai accetterebbe almeno una di queste costrizioni. La nostra Italia, bella e “chiassosa” con la sua gente che spesso si chiama da una parte all’altra parte della strada, mangia il gelato mentre guarda i negozi, fa interminabili telefonate quando aspetta di tornare a casa, non rispetta le norme finché non diventano obblighi e, anche in quel caso, “dipende sempre dalla situazione”.
Mi fa sorridere, ma allo stesso tempo mi chiedo se una società̀ così inibita come quella giapponese, non abbia delle conseguenze. Certo, noi italiani ci lamentiamo sempre del nostro paese, della maleducazione e del mancato rispetto. Allo stesso tempo però, siamo anche in grado di capire la debolezza altrui. Siamo sempre stati un popolo di empatici, che non ha paura di vivere in una società̀ emotiva, fatta di malfunzionamenti, ma anche particolarmente affettuosa se necessario. Forse uno dei paesi con il più basso tasso di depressione anche dovuto alla mancanza di paura nel comunicare emozioni. Un paese dove gli errori sono ammessi, perché́ si, può̀ succedere a tutti. La società̀ giapponese appare, quindi, come una “società̀ funzionale” al suo massimo dove, nonostante non ci siano cestini per le strade, nessuno lascia in giro la spazzatura. l’Italia invece si presenta come una “società̀ emotiva”, disfunzionale, ingorgata ma anche dove la solitudine sembra più̀ marginale, la disobbedienza è spesso una forma di aiuto e dove ci si tende la mano, anche tra sconosciuti.
ARTE E TECNOLOGIA
Se ci si vuole sentire proiettati nel futuro, Tokyo è la città giusta. A partire dal wi-fi che si può̀ affittare in aeroporto (un router che entra nella tasca della giacca e procura la connessione rapida costante) ai tabelloni a video pubblicitari dell’attraversamento di Shibuya, i binari del Bullet Train (treno che viaggia a 500 km/h) sopraelevati, fino agli store digitali. Due esempi di negozi digitali sono il “Ginza 456 by KDDI” e “Bulgari”. Entrambi sono flagship, ovvero punti vendita creati dai brand per comunicare i valori aziendali e la brand identity. Nel Ginza 456, un progetto di Ryusuke Nanki, la facciata rivolta verso la strada, le pareti, i soffitti e i pavimenti sono stati coperti da Led diventando una superficie di proiezione sagomata sincronizzata che segna un approccio creativo al futuro design e al branding e mette in mostra i progressi delle telecomunicazioni nel 5G. A sua volta, Bulgari, creazione di TeamLab, impressiona con l’iconico serpente arrotolato lungo la Ginza tower illuminato grazie a Led, dove motivi e colori possono essere manipolati tramite il proprio smartphone.
In un clima di ricerca tecnologica, non posso perdermi il museo digitale del TeamLab. All’inizio temo di aver sopravvalutato l’esperienza, vengo incanalata, scalza, in una coda medio lunga attraverso corridoi bui ma, man mano che cammino tra le stanze a tema, smetto di sentirmi circondata da persone e bambini e sento di trovarmi in un mio spazio immersivo fino a quando riesco a lasciarmi andare e perdermi nell’esperienza. Così non ho più̀ il senso dell’orientamento mentre cammino tra luci a cascata e riflessi di pareti a specchio. Mi sembra di nuotare tra galassie lontane, o di arrancare nell’acqua lattiginosa, dove vengono proiettate carpe di ogni dimensione che si trasformano in petali di fiori. Attraverso una stanza piena di enormi palloni bianchi, fino a sdraiarmi nell’ultima stanza dove mazzi di fiori pendono sulla superficie specchiata, confondendo l’orientamento tra l’alto e il basso. In questo viaggio, i miei sensi si mescolano, lasciandomi incerta sulla concezione dello spazio e mi vengono le vertigini a pensare fino a quale livello siamo in grado di percepire i confini della nostra esistenza. Se l’impressione di noi stessi è principalmente sensoriale, così mescolando i confini del nostro corpo, mi domando fino a quale livello di intuizione esistenziale si possa arrivare attraverso l’uso della tecnologia. Avverto come un dilatamento in quello che come Italiana, e fondamentalmente arretrata dal punto di vista tecnologico, consideravo normale e mi faccio coinvolgere da questo entusiasmo per il futuro. Così se nei primi giorni Tokyo mi pareva una creatura troppo grande per me, ora inizio a vedere le sue altezze come un trampolino verso il cielo e l’avvenire mi pare meno spaventoso. Sono quindi un pò dispiaciuta quando giunge il mio momento di prendere il treno e partire per Osaka.
IL SILENZIO È D’ORO
La cosa più impressionante del bullet train, non è solo la sua velocità, ma anche la quiete quasi assordante delle carrozze. Nella cultura occidentale (ma soprattutto mediterranea) il silenzio pare un’aberrazione da colmare con parole, suoni e canzoni mentre in Giappone diventa una forma di comunicazione non verbale quasi vitale, in grado non solo di trasmettere rispetto, ma anche emozioni. È certamente una comunicazione ambigua, che può̀ riflettere affetto ma anche, allo stesso tempo, delusione e rabbia, rivelando e nascondendo sentimenti, comunicazione.
Un linguaggio che nell’Occidente viene spesso connesso con solitudine e allontanamento affettivo ma che, in realtà̀, pare più̀ connesso con la paura di restare soli con se stessi, con la complessità̀ e la profondità̀ delle proprie ansie e che riflette la costante paura occidentale della solitudine. Arrivo quasi a godermi questo momento di pace, quando il treno arriva alla stazione di Osaka e mi ritrovo di nuovo immersa in una moltitudine di persone che, quasi come un’onda dell’oceano, mi travolge, ma mi rendo conto che riesco ad orientarmi meglio rispetto alla settimana precedente, così mi lascio trascinare fuori dalla stazione, lungo le strade illuminate dalle lanterne, sui ponti di una Parigi del sol levante e dentro la notte, mai troppo buia.
LA VERTIGINE DEL DETTAGLIO E LE EMOZIONI FRAGILI
Arrivo finalmente Kyoto, paragonarla a Firenze non si fa peccato. Tra le ombre delle Geishe, i templi e i musei, ci si perde nelle romantiche atmosfere che si immergono nell’antico Giappone. È in una caffetteria che ogni mattina incontro sempre lo stesso signore che passa qualche ora a disegnare paesaggi locali, un giorno una finestra su Tokyo, il giorno dopo un paesaggio di mare. Osservo come, concentrato, disegna una dopo l’altra le linee che formano le sagome e le ombre dei diversi palazzi, alberi, spiagge e cortili. Mi chiedo con quale pazienza e minuzia si possano guardare così tanti dettagli attraverso la lente di ingrandimento e come ripercorra i tratti di quelle immagini che penso conosca ormai a memoria. Dentro di me scatta quasi un’invidia per quella pazienza e dedizione diretta a realizzare un progetto più̀ grande. In una società̀ dove siamo spinti ad eseguire tutto e subito, capisco quanto sia importante la calma nella capacità di superare il fallimento e la frustrazione. La tranquillità̀ di Kyoto, le sue emozioni soffuse che esprimono malinconia e bellezza è avvolgente mentre la neve lascia spazio ai primi boccioli dei fiori di ciliegio, rivendo un Giappone più̀ tranquillo, fatto di delicatezza e eleganza all’ombra dei templi e delle pagode.
LA VETTA
Arrivata ad Hakone, l’ultima tappa del mio viaggio prima di tornare a Tokyo, l’atmosfera notturna appare quasi inquietante. Tra il clima invernale, il silenzio perentorio e costante, l’ombra delle montagne in lontananza e il vento gelido che soffia tenace, avverto la mia impotenza davanti ad una natura quasi ostile. Mi faccio forza e al mattino scelgo di scalare il monte Ashigara, considerato uno dei punti migliori per osservare la vetta del Fuji. Il vento soffia con più̀ intensità̀ della sera precedente, tra le foglie di bambù̀ ai lati del sentiero. La salita è irta fino all’ultimo, ma il sole splende tranquillo. Non si vedono turisti o sportivi e nemmeno escursionisti della domenica, mentre i gradini si fanno più̀ ripidi e il pendio più̀ irto. Mi sembra di essere quasi arrivati, ma il navigatore indica che mi trovo solo a metà strada. Finalmente, dopo un altro paio d’ore scavalco l’ultimo scalino e mi si para davanti l’incredibile visione del monte Fuji, con la sua neve perenne e il fumo, musa di Hokusai, lasciandomi quasi senza parole davanti a tanta grandiosità̀. Trovo rifugio in una piccola locanda dove uno dei più̀ espansivi giapponesi mai incontrati finora, grazie alla mia App di traduzioni, mi chiede se desidero qualcosa. Il rifugio è pieno di oggetti, foto di spedizioni, ritratti, bambole antiche, un agglomerato di cose del passato che fanno da sfondo al mio tè. Il mio nuovo amico mi spinge davanti un libro “Scrivi qualcosa”, mi sorride. Non so cosa scrivere, sfoglio le pagine distrattamente, persone che prima di me sono arrivate lassù̀ hanno scritto le loro paure, i loro successi, la loro sorpresa, le loro speranze. Ci penso un attimo, prendo la penna e scrivo “Arrivare fino a qua è come la vita, ci sono migliaia di gradini, e dopo altri gradini e quando pensi di essere arrivato, altri gradini, ma una volta in cima, la vista è meravigliosa”
“Arrivare fino a qua è come la vita, ci sono migliaia di gradini, e dopo altri gradini e quando pensi di essere arrivato, altri gradini, ma una volta in cima, la vista è meravigliosa”
Silvia Lorenzi
Regista