INTERVISTA
LORENZO MATTOTTI L’arte di perdersi nel segno
A 71 anni, il maestro del fumetto e dell’immagine contemporanea racconta ad ArteCultura Magazine un metodo che si dissolve, la centralità dell’improvvisazione, il dialogo con letteratura e musica e la nascita di storie dove il colore guida il pensiero e l’immaginario prende forma.
«Più vado avanti, più il metodo diventa vago. Ogni libro ha la sua storia personale». Illustratore, fumettista, regista, sceneggiatore, adorato dai giovanissimi: Lorenzo Mattotti – 71 anni portati da Dio, nato a Brescia – è una delle figure più influenti dell’immagine contemporanea. Con Fuochi (1984) ha rivoluzionato il linguaggio del fumetto, fondando negli anni ’80 il gruppo Valvoline e aprendo un nuovo modo di pensare la narrazione visiva. Ha collaborato con The New Yorker, Le Monde, ha firmato libri per bambini, campagne pubblicitarie, manifesti, fino ad arrivare al cinema con il lungometraggio d’animazione La famosa invasione degli orsi in Sicilia, presentato a Cannes nel 2019. Tra i suoi lavori più recenti non si può non dire delle illustrazioni per I viaggi di Gulliver (Einaudi) e la partecipazione alla Trilogia di New York di Paul Auster, di cui ha realizzato il capitolo Fantasmi. L’ho incontrato a Firenze per un dialogo che mi aiutasse a capire da dove nasce il suo immaginario.
Come nasce una sua immagine? Parte dal colore, dal segno o da un’emozione precisa?
«Ci sono tante maniere per arrivare a fare una storia. Di solito lavoro con uno sceneggiatore, ci confrontiamo su quello che vogliamo ottenere. Ogni storia è diversa, è un po’ come iniziare un film: cominci a ragionarci attorno. A volte parto dai classici, come Dottor Jekyll. Altre volte, invece, parto da immagini che ho già in testa: un viaggio, un work in progress. Ogni libro ha la sua storia personale. Non ho un metodo, e più vado avanti più il metodo diventa vago. Comincio sempre da immagini buttate giù, frammenti. Con Paul Auster, ad esempio, sono partito dal teatro».
Le capita di iniziare a disegnare senza sapere dove stai andando, lasciando che il segno la guidi?
«Sì, capita. Ma dipende dal tipo di lavoro. Nel fumetto è un discorso complesso: la storia è molto progettata. All’interno di questa struttura, però, cerco sempre uno spazio per l’improvvisazione. I dialoghi spesso sono stretti, precisi: lì si improvvisa poco.
Mentre disegno, invece, mi piace lasciare una certa libertà, anche se io non ho un segno “preciso” in senso accademico. Mantenere la spontaneità dentro una storia a fumetti è difficilissimo.
Per questo amo sempre di più i libri “muti”: mi permettono di dare più forza alle immagini».
Quanto spazio lascia all’improvvisazione rispetto alla progettazione?
«Serve una struttura, soprattutto nel fumetto: ritmo, scansione, montaggio. Ma dentro quella struttura cerco sempre un margine di sorpresa. L’improvvisazione la voglio, soprattutto mentre disegno: è lì che nasce la vita del tratto.
Però non improvviso mai tutto: costruisco, poi lascio respirare.»

Lorenzo Mattotti
Quanto ruolo hanno la musica e la letteratura nella sua fase creativa?
«Tantissimo, un grande ruolo. La letteratura, prima di tutto: leggo molto, e dalla letteratura nascono voglie, idee, riflessioni. La musica pure: a volte certe storie sono nate ascoltando dei brani.
Ascolto di tutto, ma ci sono stati periodi in cui musiche come Brian Eno, Peter Gabriel o i Genesis mi hanno proprio sbloccato. Mi hanno aiutato anche nei lavori più complessi, come le illustrazioni per L’Inferno di Dante. Mi capita non solo di ascoltare musica in continuazione, ma anche di riascoltarla per non fare andare via l’ispirazione».
C’è una fase del processo che sente più sua? Schizzi, studio del colore, inchiostrazione?
«Ci sono fasi diverse e ognuna ha il suo fascino. Quella che amo di più è l’inizio, quando tutto è ancora da inventare: butti giù schizzi, idee, frammenti. È il momento più libero.
Poi, quando si costruisce la storia, tutto si complica: serve progettazione, devi organizzare ritmo e struttura. Ma proprio perché ogni fase richiede qualcosa di diverso, mi piace attraversarle tutte».
Lei ha uno stile immediatamente riconoscibile. Quali sono state le sue principali influenze?
«Sono tantissime. Nel fumetto direi tre o quattro maestri che hanno aperto porte decisive: Alberto Breccia, Renato Calligaro, e in generale quegli autori che hanno immaginato un modo diverso di raccontare. Nella pittura mi sono innamorato degli espressionisti, di Francis Bacon, e poi — all’estremo opposto — di Beato Angelico: quelle narrazioni minuscole, quei colori rosa, verdi, azzurri, le composizioni…
Alcuni pittori mi accompagnano da sempre, e ritornano nei miei lavori, persino nel film sugli orsi».
Le sue immagini sembrano sempre in movimento. Come lavora su questa dinamica?
«Il movimento nasce dal segno, ma anche dalla composizione. Una linea curva, una campitura intensa: tutto può evocare energia.
Cerco sempre di costruire una tensione interna all’immagine, un ritmo.»
Usa tecniche digitali o lavora solo con strumenti tradizionali?
«Io il digitale non lo uso: non l’ho mai imparato e, sinceramente, sono molto più veloce con le tecniche tradizionali.
La mia équipe ogni tanto usa Photoshop per colorare, ma la base del mio lavoro è sempre la matita, il pastello, gli inchiostri ad acqua. I quadri grandi li dipingo con acrilici su tela, chine, inchiostri».
Nei suoi fumetti l’immagine spesso supera la parola. Come si costruisce un ritmo narrativo visivo?
«Per molti autori il testo è il punto di partenza. Per me no: io parto da una struttura e da un ritmo grafico. La storia la disegno. Prima gli schizzi, poi i disegni finali. La composizione delle pagine è fondamentale: la relazione tra una vignetta e l’altra, la dinamica del passaggio, la variazione dei colori. È come dirigere una musica visiva».
Come si lavora a un fumetto in cui la parte grafica guida anche la sceneggiatura?
«Bisogna che il testo accetti di essere “guidato” dall’immagine. Succede se lo sceneggiatore è disposto a dialogare. Si costruisce un equilibrio: l’immagine propone, il testo risponde. È un continuo rimando».
C’è un’opera a cui è particolarmente legato?
«Fuochi, senza dubbio. È la storia più importante che ho fatto: mi ha fatto conoscere a livello internazionale e ha rappresentato un momento della storia del fumetto in cui tutto era in fermento.
Negli anni ’80 il fumetto era un linguaggio in crisi, ma anche carico di energia. Fuochi ha mostrato che si poteva raccontare una storia con una tecnica pittorica, con la forza delle immagini invece che con il testo. Era una narrazione poetica e, all’epoca, sorprendente».
Cosa l’ha spinta a realizzare adattamenti letterari come Hansel e Gretel?
Mattotti: «È nato da una richiesta di The New Yorker: volevano reinterpretazioni delle fiabe classiche. Alcuni miei lavori non furono pubblicati ma furono esposti, e quell’occasione mi ha permesso di continuare le mie ricerche sulle foreste. Io mi sono limitato in quel caso ad aggiungere i personaggi: e da lì è nato un libro molto forte, molto libero. Un viaggio personale dentro la fiaba».
E quando ci lasciamo mi è chiaro che il suo immaginario non è solo un luogo da osservare, ma un territorio da attraversare: una geografia viva, che muta ogni volta che la si guarda.
L’improvvisazione la voglio, soprattutto mentre disegno: è lì che nasce la vita del tratto.


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