CINEMA
La rivoluzione della Nouvelle Vague tra introspezione e intransigenza
In modo nostalgico o polemico, lo splendore del vero catturato dal cinema francese negli anni Sessanta continua a farsi ricordare. La Nouvelle Vague è ancora oggi un paradigma di rinnovamento e rivoluzione, forse irripetibile
Beatrice Laurora
La Nouvelle Vague è forse uno dei movimenti cinematografici più celebri della storia del cinema. Nasce in Francia sul finire degli anni Cinquanta alla ricerca di nuovi valori culturali e di un nuovo modo di fare cinema, che vada contro tutte le regole del cinema classico. L’idea è quella di proporre un cinema lento che scruti con attenzione e senza moralismi di sorta l’inafferrabile e scostante animo umano; un cinema che indugi sui paesaggi, sulle luci e sulle ombre, sulle passeggiate silenziose, sugli sguardi e il non detto. “Il cinema è verità ventiquattro volte al secondo”, diceva Jean-Luc Godard proponendo così una visione del tutto nuova da come veniva visto allora il cinema tradizionale, idealista e lontano dalla realtà. In quegli anni le persone affollavano sale cinematografiche, cineclub e cinema d’essai. Ma l’industria cinematografica era in crisi per via della situazione economica instabile dovuta all’inizio della Guerra Fredda e alle vicende della Guerra in Algeria. Il cinema veniva utilizzato per rafforzare la morale nazionale e i personaggi non raccontavano storie vere ma idealizzavano situazioni di ipotetica perfezione. Per le nuove generazioni, che non avevano vissuto sulla propria pelle gli orrori della guerra e avevano potuto studiare, il cinema non poteva continuare a rappresentare un semplice intrattenimento o uno svago domenicale. Il termine “Nouvelle Vague” che si riferiva alla nuova corrente cinematografica più veritiera, realistica, sensibile, venne coniato nel 1957 dal periodico francese “L’Express” in seguito ad un’ondata travolgente di proteste giovanili contro la politica di colonizzazione algerina che investì la Francia di quel periodo.
L’inizio del cinema di qualità Spesso si è ritenuto che la Nouvelle Vague avesse provocato una rottura nella pratica della produzione cinematografica francese basata sulle sovvenzioni che favorivano i film di massa e di tendenza. In passato infatti una legge, votata nel settembre del 1948, decretava una Tassa speciale addizionale sui biglietti d’ingresso al fine di alimentare un fondo di sostegno; si trattava di un prelievo obbligatorio sugli incassi, che poteva essere in seguito recuperato per essere reimpiegato in un nuovo film. La nuova legge del 1953 conservò i medesimi principi ma a questi ne aggiunse di nuovi, prima di tutto la qualità che meritava una ricompensa, o meglio un incoraggiamento. Nel 1956, vennero denunciati gli effetti nefasti del sostegno automatico, che dava agli artisti una mentalità da industriali e ai produttori una predisposizione da esportatori, in quanto l’ammontare del sostegno ottenuto era proporzionale agli incassi: ciò, di conseguenza, favoriva film che trattavano argomenti relativamente facili, tratti da autori noti o che avevano già dato prova di efficienza in versioni precedenti. Il coraggio dei produttori andava stimolato, incoraggiato fino a correre dei rischi, con attori nuovi, innovazioni artistiche in modo da perseguire un ringiovanimento e un rinnovamento cinematografico. Alcuni protagonisti del dibattito cui abbiamo fatto riferimento si scagliarono violentemente contro i film costosi: “Ciò che più manca al cinema francese è lo spirito di povertà”. Questa forte diffidenza nei confronti dei grossi budget resta una costante della Nouvelle Vague.
L’estetica della Nouvelle Vague Privilegiando il piccolo budget, la Nouvelle Vague si basa su una serie di scelte che vanno dalla sceneggiatura alla rifinitura del film.
- L’autore-regista è anche lo sceneggiatore del film;
- nell’ideazione delle sequenze, nel dialogo, nella recitazione degli attori viene lasciato largo spazio all’improvvisazione;
- per le riprese sono privilegiati gli ambienti naturali;
- il cast è leggero, composto da poche persone;
- le illuminazioni aggiuntive sono utilizzate il meno possibile;
- la postsincronizzazione audio è evitata, si preferisce il suono in presa diretta.
Tutte queste scelte vanno nel senso di una maggiore elasticità di realizzazione e si sforzano di alleggerire, per quanto possibile, le pesanti costrizioni del cinema concepito sul modello commerciale e industriale: mirano a eliminare le frontiere tra cinema professionale ed amatoriale, come quelle tra film di finzione e film documentario. Questa innovativa impostazione cinematografica non avrebbe avuto tanta presa se non fosse radicalmente mutato il pubblico interessato al cinema. Mentre prima infatti a recarsi nelle sale cinematografiche erano principalmente famiglie, negli anni della Nouvelle Vague erano invece adolescenti e giovani che esprimevano valori diversi dai genitori e cercavano nei film anche una identificazione personale e una visione della vita priva di censure.
La Nouvelle Vague di Robert Bresson, il pittore che cambiò il cinema
Padre nobile della Nouvelle Vague, Robert Bresson portò un cinema all’insegna del rigore etico ed estetico, alla continua ricerca di una forma essenziale.
Il lavoro di regia di Robert Bresson consiste nel tentativo di depurare la realtà e la sua rappresentazione da qualsiasi elemento superfluo. Bresson amava dire che il suo cinema era, prima di tutto, un esercizio interiore; egli, che prima di tutto era un pittore accostatosi al cinema quasi per caso, non accettava mezzi termini; per lui fare film doveva essere un non spettacolo, un linguaggio dell’anima. Per Bresson la recitazione non era fondamentale, era infatti apparentemente assente, quasi un ostacolo per comunicare in maniera più costruttiva ed emotivamente più partecipata con uno spettatore che era innanzitutto chiamato, direttamente e in prima persona, a capire lo stato d’animo dei protagonisti; da qui, l’attenzione che dedicava non solo al montaggio ma anche alla musica, che doveva accompagnare segnatamente le immagini. È con Bresson che si parla di poesia delle mani, la straordinaria abilità delle mani, la loro intelligenza! Nei suoi 75 minuti di durata, Pickpocket, si presenta come un film straordinariamente denso, ricco, concentrato. Bresson trasforma la serie dei furti compiuti dal giovane studente e dai suoi complici in uno straordinario balletto di mani che si inseguono, di portafogli sottratti, di gesti e di sguardi abbozzati, grazie a un montaggio frammentato e sincopato. L’arte può scegliere davvero qualsiasi soggetto da rappresentare; di fronte al disordine e al caos morale del mondo, Bresson forse si era illuso di costruire attraverso il crimine, un paradossale universo di armonia e di equilibrio, fatto tutto di sequenze che rappresentano il suo feticcio preferito: le mani.
Jean Luc Godard: il cinema non è solo intrattenimento ma soprattutto arte
Jean-Luc Godard, protagonista di grandi polemiche e furiosi litigi, per sessant’anni, è stato un uomo e un artista “contro”
Antipatico, solitario, scontroso, egocentrico, ribelle, geniale. “Sapeva essere odioso e stupendo” diceva di lui l’ex moglie Anne. Jean-Luc Godard era contro la sua classe sociale, contro il capitalismo e la cultura di massa. Parlava della globalizzazione culturale come una forma di totalitarismo: la tv è totalitarismo, le persone che stanno quattro ore al giorno davanti alla tv sono vittime del totalitarismo.Nato in una famiglia dell’alta borghesia, dopo un’adolescenza agiata e ribelle e studi irregolari, si accostò al cinema alla fine degli anni Quaranta frequentando la cineteca e i cineclub parigini con un gruppo di giovani amici che costituì il nucleo originario della futura Nouvelle Vague. Il suo modo di girare era basato sulla rapidità, su sceneggiature appena abbozzate che lasciavano il primato alla ripresa e alle circostanze offerte dal caso e dalla personalità degli attori. Oltre ai grandi temi, Godard ha continuato a coltivare nostalgicamente il piccolo cinema dei generi e dei mestieri, accettando anche lavori su commissione, pubblicità e film promozionali, realizzati sempre con originalità e grande libertà critica. “La televisione crea l’oblio, il cinema crea dei ricordi”, diceva. I film di Godard non presentano una struttura narrativa ben definita; la narrazione è solo un pretesto per sottolineare gli aspetti più profondi della vita. Riferendosi ai cineasti precedenti, diceva: “Noi non possiamo perdonarvi di non avere mai filmato le ragazze che amiamo, i ragazzi che incontriamo ogni giorno, i genitori che disprezziamo o ammiriamo, i bambini che ci meravigliano o ci lasciano indifferenti, le cose così come sono.” I personaggi di Godard rispecchiano tutta la sua schiettezza e la sua spontaneità, come Michael, che in “Fino all’ultimo respiro” rivolgendosi all’operatore, e quindi allo spettatore, per il suo monologo, durante la corsa in auto senza peli sulla lingua esulta: “Se non vi piace il mare… Se non vi piace la montagna, se non vi piace la città… Andate a quel paese!”.
Il senso di disagio raccontato da Francois Truffaut
Radicale nella sua idea di cambiare il cinema, Francois Truffaut propose una visione intima e contemporanea, libera da vincoli e da stereotipi
Al di là dello stile apparentemente spontaneo, privo di regole, con cui François Truffaut mette in scena le vicende del protagonista Antoine, “I quattrocento colpi” è, in realtà, un film le cui parti sono organizzate secondo una struttura ben precisa. L’opposizione tra spazi interni ed esterni è il dato che colpisce maggiormente. La casa dei genitori del ragazzo, la scuola, il commissariato di polizia, l’ufficio della psicologa del riformatorio, sono tutti ambienti angusti, in cui tanto i personaggi quanto la cinepresa si muovono a fatica. Gli spazi esterni, invece, rappresentano il polo opposto rispetto a quello dei luoghi chiusi: le strade di Parigi sono riprese, forse per la prima volta nella storia del cinema francese del secondo dopoguerra, in piena libertà: Truffaut riesce a riprodurre uno sguardo che si impossessa degli spazi percorrendoli liberamente. “I quattrocento colpi” si distacca dagli stereotipi scelti all’epoca per descrivere il mondo dell’infanzia. Il senso di commossa partecipazione di Truffaut alle vicende del ragazzo protagonista scaturisce da una concezione del film come un progetto intimo e per questo libero da vincoli; la realtà emerge in una maniera fino allora inedita.
La psicologia di Antoine, che traspare proprio come quella di una persona vera, contradditoria e complessa, è molto meno immediata da sviscerare di quanto si possa pensare: in lui convivono timore e audacia, indifferenza e sensibilità. Anche le personalità contrastanti dei genitori del giovane vengono rappresentate nei dettagli e nelle sfumature, ma senza giudizio: alla freddezza della madre, incapace di rivolgersi al ragazzo attraverso sincere manifestazioni d’amore, si contrappone la leggerezza del padre. Truffaut si astiene dal giudicare con risentimento questi personaggi, anzi cerca di abbracciarli e comprenderli, evidenziando la sofferenza a cui anch’essi sono sottoposti. La distanza tra il mondo degli educatori e quello degli educandi, o in altre parole quella tra vecchi e giovani, è in fondo la stessa che separa la tradizione del cinema francese e la Nouvelle Vague. Lo stesso autore rivela “I film dei giovani registi somigliano in modo straordinario a chi li realizza perché sono girati in piena libertà.”
Ormai è passato del tempo dall’esordio della Nouvelle Vague, eppure è bello sapere che all’epoca ci sono stati artisti, persone innanzitutto, che hanno saputo riconoscere la bellezza di certi esseri umani forse un po’ troppo complessi per vivere una vita normale, e racchiuderne la sensibilità in una pellicola.
Con la Nouvelle Vague il senso di disagio, di abbandono, di imbarazzo, rimangono dentro le ossa e diventano qualcosa di tangibile: chi prova queste sensazioni è in grado di distinguerle.
Beatrice Laurora
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