INTERVISTA
GIUDITTA SIMI “Mio padre Carlo, l’architetto del cinema italiano”
In questa intervista esclusiva ad ArteCultura Magazine, Giuditta Simi ricorda suo padre Carlo, l’architetto e scenografo che ha trasformato i set dei western di Sergio Leone in vere opere d’arte. E nel suo libro, Un architetto prestato al cinema, Giuditta traccia un ritratto intimo di un uomo che, con passione e dedizione, ha dato forma al cinema italiano.
“È difficile vedere che mio padre, che ha contribuito così tanto al mondo del cinema, soprattutto con le sue collaborazioni con Sergio Leone nei film western, non riceva il riconoscimento che merita. Ha creato scenografie che hanno definito un intero genere e che ancora oggi sono iconiche. Ad esempio, in Andalusia, a Tabernas, ci sono ancora oggi villaggi western costruiti da lui per film come Per qualche dollaro in più e C’era una volta il West. La famosa casa di Claudia Cardinale in C’era una volta il West fa parte di quello che oggi è un vero e proprio mini-Hollywood, ancora visitabile. Nonostante tutto, pochi in Italia conoscono il suo lavoro, mentre all’estero è più apprezzato. Per me vedere questo contrasto è doloroso, ma spero che la sua figura venga riscoperta”. Poche parole e chiare: la verità dalla diretta voce di Giuditta Simi figlia di questo grande del cinema italiano come l’architetto Carlo Simi, braccio destro di un vero mito come Sergio Leone. E per la prima volta parla a una giornalista del grande scenografo dimenticato del cinema italiano.
Giuditta, parliamo delle collaborazioni di suo padre con Sergio Leone. Quanto erano importanti per lui quei progetti?
“Le collaborazioni con Sergio Leone sono state fondamentali. Mio padre non solo ha progettato le scenografie, ma spesso ha costruito veri e propri mondi. Per film come Il buono, il brutto, il cattivo e C’era una volta il West, non si è limitato a disegnare gli spazi: li ha resi vivi, creando atmosfere che hanno segnato l’immaginario di generazioni di spettatori. Mi raccontava spesso di quanto fosse stimolante lavorare con Leone, perché c’era un rispetto reciproco e un’intesa creativa che si rifletteva sul grande schermo. Quei film non sarebbero stati gli stessi senza le sue scenografie, eppure pochi lo sanno”.
Cosa rendeva il suo approccio alla scenografia così unico?
“Papà era ossessionato dal dettaglio. Ogni elemento sul set, anche il più piccolo, doveva avere un senso, un significato che arricchisse la narrazione. Quando creava una scenografia, non pensava solo all’aspetto estetico, ma all’ambiente come un vero personaggio del film. In C’era una volta il West, ad esempio, ha costruito quel saloon e la casa di Claudia Cardinale con una tale precisione che sembrava di trovarsi davvero in quel mondo. Il suo approccio era quasi artigianale, e credo che sia proprio questo a distinguere il suo lavoro: la sua capacità di far sentire il pubblico immerso in un luogo reale, non in uno spazio fittizio”.
Ha scritto un libro su suo padre, giusto? Ce ne parla?
“Sì, ho scritto un libro intitolato ‘Un architetto prestato al cinema’, dove racconto la vita e la carriera di mio padre. Il titolo riflette proprio la sua formazione: era un architetto di professione, eppure ha portato quell’abilità e quel senso dello spazio direttamente nel cinema, trasformando i set in opere d’arte. Nel libro, ho cercato di raccontare non solo la sua carriera, ma anche l’uomo dietro la sua arte, perché mio padre era una persona di grande umiltà e dedizione. Volevo che le persone conoscessero il suo lato umano oltre che il suo straordinario talento”.
In che modo la sua eredità artistica continua a vivere oggi?
“Anche se il suo nome non è noto quanto dovrebbe, la sua eredità è ovunque. Registi e scenografi di tutto il mondo guardano al suo lavoro come fonte d’ispirazione. Penso che il fatto che in Spagna, a Tabernas, ci siano ancora oggi villaggi western costruiti da lui, come la mini-Hollywood, sia un segno di quanto sia stato influente. Inoltre, ci sono musei dedicati al suo lavoro, e ad Almeria si tiene ogni anno l’Almeria Western Film Festival, dove si celebra il cinema western e il suo contributo è spesso ricordato. Quest’anno il festival si è tenuto dal 9 al 14 ottobre, ed è stato un omaggio continuo al lavoro di artisti come mio padre”.
Pensa che ci sia ancora speranza che il suo lavoro venga riconosciuto come merita?
“Lo spero. Sarebbe bello vedere una riscoperta del suo lavoro, magari attraverso una retrospettiva o una mostra che racconti il suo contributo al cinema. Penso che con il tempo ci sarà un ritorno di interesse verso quegli anni e verso quelle figure che, come mio padre, hanno dato forma a mondi che oggi consideriamo classici. Non c’è mai stata una vera celebrazione del suo lavoro, e credo che sia giunto il momento di farlo. È un patrimonio che appartiene non solo alla mia famiglia, ma a tutti gli amanti del cinema”.
Anche suo figlio, Lorenzo, lavora nel cinema, giusto?
“Sì, mio figlio Lorenzo, che oggi ha 28 anni, lavora anche lui nel mondo del cinema, ma in produzione. Ha sempre avuto una grande passione per questo mondo, credo di avergliela trasmessa io, e ovviamente la figura di mio padre ha avuto un grande impatto su di lui. È bello vedere che la tradizione di famiglia continua, anche se in un campo diverso da quello del nonno. Sono sicura che papà sarebbe stato orgoglioso di vedere suo nipote impegnato a dare il suo contributo a questo mondo che tanto amava”.
C’è qualcosa che vorrebbe che il mondo ricordasse di Carlo Simi?
“Vorrei che il mondo ricordasse la sua passione. Papà metteva tutto sé stesso in ogni progetto, senza mai accontentarsi del minimo. Era un perfezionista, ma anche un uomo di grande umiltà, che preferiva che fossero i suoi set a parlare per lui. Quella dedizione, quel desiderio di creare qualcosa di indimenticabile, è ciò che lo rendeva unico. Il cinema italiano gli deve molto, e mi piacerebbe che le nuove generazioni lo scoprissero e imparassero ad apprezzarlo per ciò che ha lasciato”.
“Papà metteva tutto sé stesso in ogni progetto, senza mai accontentarsi del minimo. Era un perfezionista, ma anche un uomo di grande umiltà, che preferiva che fossero i suoi set a parlare per lui”
Giornalista