INTERVISTA
ELISA PICCINI La bellezza come destino e artigianalità del futuro
Gemmologa e quarta generazione della storica maison fiorentina, Elisa Piccini racconta ad ArteCultura Magazine il valore del tempo lento, della creatività che nasce dalla materia e della nuova visione dell’Atelier di Via Roma. Un dialogo tra tradizione e futuro, dove ogni gioiello diventa racconto, memoria e gesto di verità
«Sono cresciuta sul Ponte Vecchio con la testa in su e le mani dentro le pietre: è lì che ho capito che la bellezza è un mestiere, prima ancora che un destino». Elisa Tozzi Piccini. Ceo di Fratelli Piccini è gemmologa e quarta generazione della storica maison fiorentina famosa nel mondo. La sua nuova avventura è l’apertura dell’Atelier di Via Roma: uno scrigno contemporaneo nel cuore di Firenze che affianca — senza sostituirla — la storica bottega-laboratorio sul Ponte Vecchio. Due luoghi complementari, uno radicato nella tradizione artigianale e l’altro dedicato a un dialogo più raffinato e moderno con la città e con i clienti.
Lei racconta spesso della sua infanzia in bottega. Che cosa resta oggi di quella bambina che saliva le scale del laboratorio del Ponte Vecchio?
“Resta tutto. Io sono cresciuta tra le mani di mio zio che mi insegnava a incidere con la punta secca, a tracciare colline e cipressi su una lastra di metallo come si disegnano ricordi. Il laboratorio era il mio parco giochi, un luogo dove le pietre non erano oggetti preziosi, ma creature da comprendere. Da allora non ho mai smesso di guardare il mondo allo stesso modo: con curiosità, rispetto e un senso quasi sacro per l’artigianalità”.

“La gioielleria è un mestiere che non sopporta scorciatoie”, dice la gemmologa Elisa Piccini
È gemmologa diplomata a Los Angeles sia in pietre preziose che in diamanti. Quanto influisce questa formazione tecnica sulla creatività?
“Tantissimo. Conoscere la materia intimamente mi permette di costruire l’oggetto intorno alla pietra, non il contrario. A volte trovo la pietra perfetta, altre volte la cerco per mesi: è un dialogo. L’ispirazione nasce guardando fuori, camminando, lasciando che le forme e i colori entrino nella mente. L’arte si può ridurre a qualcosa di minuscolo o esplodere in un grande pezzo di gioielleria: non c’è una regola, se non quella di restare aperti”.
In un mondo dove spesso si corre, lei continua a rivendicare tempi “lenti”, quasi da alta sartoria. Perché?
“Perché la gioielleria è un mestiere che non sopporta scorciatoie. Ogni oggetto richiede tempo, prove, proporzioni. Sono della vecchia scuola: un pezzo deve uscire al suo massimo, e basta. Per questo siamo pignoli. Quando creo un gioiello penso a una prova dalla sarta: si aggiusta, si toglie, si affina, finché la visione non coincide con la realtà. Gli oggetti devono essere bellissimi ma anche indossabili: devono diventare parte della persona”.
C’è un pezzo a cui è particolarmente legata?
“Il bracciale Sassi d’Arno. Oro rosa, zaffiri e diamanti: il concetto era quello di calare un retino nell’Arno e raccogliere pietre come fossero memorie del fiume. Ne abbiamo realizzati tre soltanto, e spariti immediatamente. Per farne uno serve circa un anno, perché ogni pietra va tagliata e calibrata a mano. È un oggetto che racconta perfettamente chi siamo: dettagli maniacali e poesia, insieme”.
È anche amministratore delegato della Fratelli Piccini SpA. Come si conciliano creatività e gestione?
“Con molta disciplina e la consapevolezza che entrambi gli aspetti sono vitali. Quando diventi proprietaria devi fare tutto: dalle decisioni strategiche alla gestione quotidiana. E in un’azienda familiare, piccola, senza fondi esterni, ogni passo è ponderato. È come remare sempre con il mare mosso. Ma poi arriva. Negli ultimi tre, quattro anni il mio team ha remato con me con un coinvolgimento che mi ha commossa. Senza di loro il viaggio non avrebbe avuto senso”.
Il nuovo atelier di via Roma rappresenta una svolta per la maison. Da dove nasce questa scelta?
“Dal bisogno di creare un luogo che raccontasse la nostra storia con un linguaggio nuovo. Il centro di Firenze è diventato frenetico, quasi un far west, e sentivo l’esigenza di offrire un rifugio: un portagioie contemporaneo. Un massimo di quindici gioielli, scelti come si scelgono parole preziose, per far vivere ai clienti un’esperienza sensoriale. Non è uno spazio minimale: è multilivello, pulito, eppure carico di memoria. Doveva essere un trait d’union tra tradizione e futuro”.
Ha affidato il progetto ad Antonio Facco, tra i designer più interessanti della nuova generazione. Cosa l’ha colpita del suo approccio?
“La sua sensibilità verso la materia e la capacità di reinterpretare i nostri codici. La tenda parasole del Ponte Vecchio – un elemento iconico – è diventata il leitmotiv dell’Atelier: una lamina di rame ambrato che ondeggia e incornicia le vetrine. È un ponte simbolico tra passato e futuro. L’ingresso stesso, con la sua leggerezza visiva, è pensato come un invito: non solo varcare una soglia, ma entrare in un mondo”.
Come vivono i clienti – spesso amici- questo nuovo spazio?
“Lo percepiscono come un piccolo archivio della bellezza. Al piano terra si viene accolti da vetrine-colonna che richiamano l’idea della tenda e scandiscono lo spazio. Al piano superiore, la F.P. Lounge offre un’atmosfera più intima per conoscere da vicino la nostra arte: un calice, un racconto, la possibilità di “toccare” la perfezione del lavoro del laboratorio. È un’esperienza, non una vendita”.
La famiglia Piccini ha attraversato più di 120 anni di storia artigianale. Cosa significa sostenere oggi questa eredità?
“Significa sentire la responsabilità, ma anche la forza della continuità. La nostra famiglia c’è: mio figlio, i miei nipoti, i ragazzi del negozio. È un progetto condiviso, che vive di un modo comune di interpretare la vita attraverso un gioiello. L’apertura dell’Atelier è stata un momento emozionante: abbiamo lavorato in silenzio, senza clamore, e quel silenzio è arrivato dritto al cuore delle persone. È la soddisfazione più grande”.
Che cosa rappresenta, per lei, l’alta gioielleria contemporanea?
“Rappresenta il ritorno alla verità. Per fortuna i grandi gioiellieri stanno riscoprendo oggetti che meritano davvero di chiamarsi tali. L’alta gioielleria non è un accessorio: è un racconto compresso in un centimetro quadrato di luce. È un gesto che deve superare il tempo. E noi, nel nostro piccolo, continuiamo a costruire bellezza una pietra alla volta”.
“L’alta gioielleria non è un accessorio: è un racconto compresso in un centimetro quadrato di luce”.


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