INTERVISTA
ANGELA CAPUTI Cinquant’anni di bijoux come atto di libertà femminile
Dalla Firenze degli anni Settanta ai musei internazionali, una storia di colore, autonomia e creatività che ha trasformato il bijou in linguaggio culturale.
«Il colore è una forza: ogni donna dovrebbe indossare quello che la fa sentire sé stessa».
Pioniera del bijou come accessorio moda, Angela Caputi ha rivoluzionato il panorama italiano fondando nel 1975 il marchio Angela Caputi Giuggiù. Le sue creazioni in resina, oggi icone del design italiano, nascono nel celebre laboratorio fiorentino dell’Oltrarno. Celebrata da musei, cinema e grandi stilisti, la designer festeggia cinquant’anni di creatività senza tempo.
Signora Caputi, i suoi bijoux celebrano oggi cinquant’anni di storia. Qual è stata la scintilla che l’ha portata a fondare il marchio nel 1975?
“Era un periodo straordinario per la moda italiana, e Firenze viveva un momento di massimo splendore, pensiamo solo a Ferragamo e all’eco della moda italiana in America. Ero molto giovane e, come tante donne, dovevo conciliare il lavoro con la famiglia. Ho cercato un mestiere che mi permettesse autonomia e creatività. Così sono nati i miei bijoux: un modo per dare alle donne qualcosa che fosse una forza, quasi una corazza capace di metterle di buon umore ogni giorno”.
Perché proprio il bijou? Cosa rappresenta per lei?
“In Italia il “bijou” era considerato un falso gioiello. Io invece l’ho sempre concepito come moda, al pari di un cappotto o di un maglione. Non mi interessavano il lusso sfrenato o l’oro: per me la moda è cultura, è storia, è un linguaggio. Basta guardare i dipinti del nostro Quattrocento o il periodo napoleonico: il vestito raccontava il personaggio. Io ho seguito lo stesso principio, cercando di dare valore alla donna attraverso ciò che indossa”.
I suoi materiali — le resine, i colori, i volumi — sono diventati iconici. Come nasce una sua palette?
“Il colore è una scelta profondamente personale. Ogni donna dovrebbe scegliere in base ai propri occhi, al proprio modo di essere. Io cerco ogni volta una nuance nuova: un verde di bosco che può essere dolce o tagliente, o il bianco purissimo degli edelweiss, che ho scelto quest’anno ispirandomi alle montagne. Le mie collezioni sono continuative: non esistono più l’estivo o l’invernale, la donna ormai viaggia, vive, mescola. E io aggiungo costantemente elementi, seguendo ciò che mi emoziona”.

Quali sono stati i suoi primi esperimenti?
“I primi pezzi erano dei cubi: mi aiutai con cristalli Swarovski e creai una collana di metallo con piccoli ciondoli natalizi. Poi realizzai perline ispirate alle mie montagne, alle piccozze che mi erano rimaste nel cuore, e delle murrine veneziane. Frequentavo spesso i bottonifici: avevano macchinari perfetti per produrre piccoli elementi geometrici, che io adoravo. È da lì che è nato il mio linguaggio fatto di linee pulite e colori decisi”.
Il cinema e l’America degli anni ’40 hanno avuto un ruolo importante nella sua estetica. In che modo l’hanno influenzata?
“Tantissimo. Quel periodo aveva una ricchezza di personaggi e di abiti incredibile. Le donne americane erano ingioiellate, eleganti, luminose. Noi in Italia, allora, avevamo poco: un cappellino, un vestitino modesto. Quel contrasto mi affascinava. I film americani di quegli anni sono un patrimonio da rivedere: raccontano una femminilità potente, che mi ha ispirato fin dall’inizio”.
Il suo laboratorio in Oltrarno a Firenze è leggendario per il mondo intero. Perché è così importante per il marchio?
“È il cuore creativo del brand. Dal 1975 realizzo lì tutti i miei pezzi, personalmente. È nel “Palazzetto Medici”, vicino a Ponte Vecchio, un luogo denso di storia. Lì si intrecciano arte, artigianato e quotidianità. È un laboratorio totalmente al femminile: un valore che per me aveva un significato profondo, soprattutto negli anni post ’68, quando si parlava molto di autonomia e riscatto delle donne”.
C’è una creazione che definirebbe “la sua follia più grande”?
“Una splendida testa di pantera, pensata come presa in giro dei grandi gioielli veri con brillanti che tutti rifacevano. Fu usata perfino in un episodio di Dynasty. La conservo ancora: è bellissima. Un’altra follia è stata la collezione per Palazzo Strozzi, dedicata al David e ai marmi del Battistero: due linee amatissime dagli americani, che hanno sempre adorato gli accostamenti con le opere d’arte italiane”.
Lei sostiene di capire molto di una donna osservandola. È davvero in grado di intuire cosa potrebbe indossare?
“Ogni donna è unica. L’atteggiamento, i colori degli occhi, la forma del collo, la postura… tutto cambia. Non posso imporre nulla: devono scegliere ciò che sentono. Ecco perché creo tantissimi orecchini diversi: ogni donna percepisce in modo diverso il colore, la luce, il peso. I miei oggetti sono moda, non semplici gioielli. E la moda vive sul corpo reale, non su un manichino”.
I suoi bijoux hanno vestito il cinema, collaborato con stilisti, e sono entrati nei musei. Come vive questo riconoscimento?
“Con gratitudine. Il mondo dello spettacolo mi ha accompagnata fin dagli inizi, e tante mie creazioni sono finite in film importanti. Poi sono arrivati i musei: il MET di New York, Palazzo Pitti, la Galleria del Costume. Ho sempre mantenuto il mio stile, senza compromessi. Il riconoscimento più bello? Essere rimasta me stessa”.
Oggi il brand celebra i 50 anni con una capsule speciale. Cosa rappresenta per lei questa ricorrenza?
“È una festa. Le iniziali “AC” e il numero “50” diventano i protagonisti, nei miei colori simbolo: rosso e nero. È una collezione pensata per chi mi segue da sempre, per chi conosce la mia storia e vuole celebrare con me un pezzo di vita e di creatività. È un omaggio al passato, ma con lo sguardo dritto verso il futuro”.
“Il colore è una scelta profondamente personale. Ogni donna dovrebbe scegliere in base ai propri occhi, al proprio modo di essere”.


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