MEDIO ORIENTE E CULTURA
In Oman il teatro, guidato da un italiano, che crea ponti culturali con il mondo
Umberto Fanni illustra come ha trasformato la Royal Opera House di Muscat, di cui è direttore, in un performing art center dove convergono diversi generi d’arte e non solo opere, sinfonica, balletto classico e jazz. E quali sono le idee che persegue
Cosa hanno in comune le fondazioni lirico sinfoniche italiane più importanti di Roma, Firenze, Torino, Verona, Bologna, Venezia Genova, Palermo e Trieste? E cosa c’entrano poi Zucchero Fornaciari, e le Marionette “Carlo Colla”? C’è un nome solo, quasi sigillo che mette tutti insieme: il nome è quello di un grande manager italiano, Umberto Fanni, bresciano d’adozione. Un manager che nasce musicista che oggi vive una vita gioiosa e piena di responsabilità, di certo votata all’amore per l’arte e la cultura.
Dal 2014, forse sì, come premio celeste, è stato scelto quale direttore artistico della Royal Opera House di Muscat, nel Sultanato dell’Oman e dal 2015 ricopre anche la carica di direttore generale. È nato nel 1962, Umberto Fanni diplomato in pianoforte con il massimo dei voti e menzione speciale al Conservatorio di Musica di Brescia e successivamente perfezionato al Conservatorio di Musica di Ginevra, con un’intensa attività concertistica come solista e camerista, ha pure registrato per la casa discografica Foné. Da questa formazione il grande balzo: diventare ideatore, gestore e direttore artistico di importanti rassegne musicali.
Fanni è uno dei pochi italiani che crede veramente – ma soprattutto non si riempie la bocca, ma mette in atto – quanto la cultura sia ponte che unisce il mondo, e che porti assieme all’arte la pace vera. Quella fatta di condivisione, e non di sopraffazione, di amore per il bello, che è universale.
Fanni, come è cominciata l’avventura?
«Dal mio primo e unico credo, il linguaggio universale e senza confini dell’arte che oltrepassa ogni barriera di colore, di religione, di etnia. Ho iniziato ideando festival ed eventi di spettacolo dedicati all’opera, alla musica concertistica, jazz e world music. Poi ho dedicato i miei studi approfondendo la stretta connessione tra la programmazione artistica e la gestione amministrativa e del personale delle aziende di spettacolo. Così per oltre quindici anni sono stato docente di Organizzazione delle imprese di spettacolo all’università Cattolica di Milano e Brescia. Poi ho fondato la Giovane Orchestra da Camera Italiana, dal 1991 al 1996 e sono stato assistente di Claudio Scimone nella gestione artistica dei Solisti Veneti. Dal 2005 al 2013 poi ho progressivamente ricoperto l’incarico di direttore artistico della Fondazione Teatro Grande di Brescia, della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, la Fondazione Arena di Verona e la Fondazione Teatro Lirico di Cagliari. Dal settembre 2014 sono direttore artistico e, dal novembre 2015, sono direttore generale della Royal Opera House di Muscat del Sultanato dell’Oman».
Come si costruisce un ponte culturale così importante tra Italia e Paesi arabi?
«Senza illudersi mai di essere speciali, perché siamo assolutamente normali. Tutto è partito da un’idea e, in un secondo tempo, c’è stato il passaggio a gestirla e amministrarla. In Italia avevo avuto quelle esperienze per spettacoli, festival e rassegne. All’inizio ho pensato di divulgare l’opera, il melodramma italiano, partendo da nomi che sono brand mondiali come Franco Zeffirelli. Poi sono passato ai concerti classici ma anche al jazz e ho creduto nella diffusione della world music. Alla fine il mio interesse è passato all’approfondimento del rapporto tra programmazione artistica e gestione di aziende di spettacolo».
Con la cultura si può emergere da notti buie?
«Oggi per me lavorare alla Royal Opera House di Muscat vuol dire entrare in contatto con una forma di performing art center. Alla Rohm proponiamo diversi generi che si accomunano perché sempre di teatro si parla. Dunque, non solo opera sinfonica e balletto classico, ma anche jazz e molto educational. Il che richiama artisti da tutto il mondo. Diciamo che ho accettato la sfida di portare e far vivere l’Opera nel deserto dell’Oman. E senza falsa modestia devo dire che è stato un successo: il melodramma italiano, con produzioni italiane firmate da artisti italiani, richiama migliaia di persone dai Paesi Arabi ogni sera. Ma anche i nomi di artisti più pop italiani sono sempre i benvenuti tra noi e molto applauditi dal pubblico».
Cultura, missione possibile dunque?
«La Royal Opera House di Muscat è un teatro nato proprio con l’idea di creare ponti culturali e possibilità di confronto. Abbiamo focalizzato e bilanciato le nazioni che fanno tappa da noi arricchendoci scambievolmente con le loro peculiarità. La cosa più importante di questa struttura straordinaria per architettura, sono le circa 300 persone, di cui il 70 per cento omaniti giovani di un’età media di 24 anni, che a teatro imparano tutti i mestieri delle arti e dello spettacolo. L’Oman è un po’ la Svizzera del Medio Oriente è un posto di mediazioni di molte cose che accadono: un paese di giovani. I cui territori consolidati vennero riorganizzati a formare il moderno Sultanato nell’agosto del 1970. Ma è enormemente ricco di storia: Al-Wutayyah, nella regione di Mascate, è considerata uno dei primi insediamenti abitati al mondo, risalente addirittura a 10mila anni fa. In seguito, prima della nascita dell’Islam, l’Oman fu dominato dagli Assiri, dai Babilonesi e dai Persiani, ciascuno dei quali sfruttò il Paese per la propria posizione strategica a fini commerciali».
Diceva di Zucchero, delle Marionette di Colla: tra gli artisti italiani che ha portato in Oman nel suo splendido teatro, chi ricorda con più passione?
«Devo dire che ognuno con la sua peculiarità, mi ha arricchito e ha arricchito la nostra esperienza di comunicazione dell’arte Made in Italy con grande successo. Ma se devo essere sincero fino in fondo, nel mio cuore c’è sicuramente Franco Zeffirelli che è stato mio maestro: qui è andato in scena in prima mondiale mesi fa anche il suo ultimo Rigoletto postumo con un trionfo che io stesso ho trovato quasi incredibile, che avevo legato a una mostra dei suoi preziosi bozzetti arrivati dalla sua Fondazione di Firenze. Da noi qui c’è spazio per le arti tutte che non sono astrazioni, ma qualcosa che riguardano l’identità dell’uomo. Per cui solidissime e reali».
Chi lavora nel suo teatro di Muscat?
«Parto dal presupposto che chi opera da noi, sappia di trovarsi davanti non un semplice teatro, ma una sorta di performing art center dove convergono diversi generi d’arte e non solo opere, sinfonica, balletto classico e jazz. Ma che siamo diciamo, molto educational, il che è un richiamo per artisti da tutto il mondo, ma soprattutto dall’Italia».
Dunque la sua missione?
«Considerare questo teatro creatore di ponti culturali con il mondo e noi da qui siamo veramente i numeri uno, focalizzando e cercando di bilanciare le varie nazioni, dando loro spazio. Su quattordici fondazioni liriche sparse nel mondo, dodici hanno fatto tappa qui in Oman. E le opere non vengono tradotte, ma hanno i sottotitoli: ogni poltrona della sala è dotata di una tv screen e ognuno la può seguire nella propria lingua».
Fanni, com’è vivere in Oman, le manca l’Italia?
«Ci vuole del tempo per avere la fiducia di un popolo che all’inizio non conosci. Ma poi quando te la danno questa fiducia, nasce un calore che ricorda un po’ quello del nostro Sud Italia che ti scruta e ti analizza, ma che quando ti apre le porte di casa, sei dei loro.
Le radici musulmane degli ’ibaditi’ sono quelle di persone buone e pacifiche, ed esiste un welfare straordinario tra l’alta società nei confronti dei lavoratori di basso livello. Trovo bellissimo il massimo rispetto e il fatto che non esista nessun conflitto, di certo è la cosa che mi ha colpito di piò oltre a quella di saper vivere senza stress. Cosa che in Italia manca, qui c’è una qualità della vita notevole».
Se le dico Oman a cosa pensa?
«Penso all’ora del tramonto sul mare, ai suoi colori meravigliosi. Al muezzin unito al canto degli uccelli. Allora mi viene da pensare quanto uomo e natura siano un’unica cosa e che bisognerebbe tornare indietro. E recuperare molti dei valori che abbiamo perso».
«Ci sono persone che cercano di approfittare dell’intelligenza degli altri, purtroppo esistono. Ma quel che temo di più è la diffidenza figlia dell’ignoranza e della presunzione, perché credo nel messaggio universale della cultura, dell’arte e della musica».
Giornalista